Stavo io dietro la macchina da presa e Gene Kelly davanti? Non c’era una divisione prestabilita del lavoro di regia, non c’erano regole fisse su ciò che faceva uno e ciò che facevo l’altro. Abbiamo trovato soluzioni, pianificato e lottato. All’epoca lui era molto più importante di me. Era una star, aveva un grande potere. Bisognava sapere come tenergli testa. Bisognava trovare il modo di offrire qualcosa per compiacere l’altro. Anche lui doveva compiacermi (anche se non lo sapeva). È così che funzionano le collaborazioni. I.A.L. Diamond, che ha lavorato a lungo con Billy Wilder, diceva di sapere che stavano collaborando quando proponendo qualcosa a Wilder lui rispondeva: “Perché no?”. Questo è collaborare. Si sta insieme ogni minuto di ogni giorno e di ogni notte. Le frizioni e le risoluzioni sono un processo lento e laborioso, ma alla fine ci si trova d’accordo – e qualche volta si è da subito d’accordo.
Stanley Donen, Don’t Stop the Dance, “Sight and Sound”, n. 12, dicembre 1999
Fare insieme l’attore e il regista deve essere una fatica. Figuriamoci se si ha sulle spalle anche la responsabilità di ballare. Perciò Gene Kelly non poteva fare a meno di Stanley Donen, suo ex braccio destro che si meritò il nome in ditta già qualche anno prima, all’epoca di Un giorno a New York, quando il musical uscì per la prima volta all’aperto. Con Singin’ in the Rain tornarono invece in teatro di posa, esaltandolo proprio in virtù del soggetto, cioè del ‘cinema nel cinema’. Gene Kelly, dal canto suo, non ha mai sottovalutato i problemi specifici che il film ballato e cantato pone ai suoi creatori. Se il palcoscenico permette una visione tridimensionale della danza, l’occhio dell’obiettivo (diceva Kelly) può invece mortificarla. Perciò bisogna usare la macchina da presa come parte integrante della coreografia, cioè come un ulteriore personaggio.
Gianni Amelio, Il vizio del cinema, Einaudi, Torino 2004
Donen e Kelly si conoscevano all’epoca abbastanza bene. Il primo (di dodici anni più giovane) aveva esordito nella regia proprio in un’altra codirezione insieme al secondo, Un giorno a New York (On the Town, 1949). […] Donen e Kelly avrebbero diretto un terzo musical insieme, È sempre bel tempo (It’s Always Fair Weather, 1955), quindi avrebbero ambedue continuato singolarmente nella regia. E proprio per questo, guardando indietro e considerando due carriere che a partire dalla metà degli anni Cinquanta si sono separate, è oggi più facile tentare di leggere ciò che nel film appartiene a Donen e ciò che invece è di Kelly.
Kelly, è cosa nota, fu primamente uno straordinario ballerino che avrebbe in seguito diretto almeno altri cinque film, tutti di dubbio esito. Donen fu invece un regista a tutti gli effetti con ventisette pellicole all’attivo (co-regie comprese), alcune eccezionali, altre di buon risultato, altre ancora trascurabili. La differenza tuttavia non sta in questo, bensì nel fatto che, considerando la produzione di Donen nel suo insieme, non è difficile scorgervi una firma autoriale, laddove quella di Kelly – indipendentemente dalla scarsa riuscita artistica – appare invece occasionale, confusa, erratica, velleitaria, retorica.
Il mondo di Donen – e, si noti, non necessariamente all’interno della sua sola produzione in ambito di musical – è una struttura organica che in ogni momento distribuisce tracce, segni di autorialità. La sua primaria caratteristica – decisamente molto cinematografica – è la centralità del concetto di movimento nell’economia e nella presentazione delle scene e del film tutto. Dimentichiamo per un momento l’ambito del musical e consideriamo, ad esempio, Due per la strada (Two for the Road, 1967). In questa storia a flashback di una crisi matrimoniale i momenti felici, euforici, entusiasmanti sprizzano energia e movimento, e al contrario quelli di tensione, distacco, sarcasmo sono visivamente concepiti in termini di staticità, di immobilità, di chiusura. Si potrebbe obiettare che dopotutto questo risponde a una retorica visuale generalizzata della psicologia hollywoodiana, ma è pur vero che in Donen l’energia non si esprime soltanto nei momenti che i personaggi vivono con particolare entusiasmo; essa infatti pervade tutto l’andamento, il ritmo e la gestualità della narrazione conferendo all’intero quadro una vitalità diffusa e caratteristica. In altre parole, in quei momenti non sono soltanto i personaggi a presentarsi in quel modo, ma il mondo intero sembra trasformarsi adeguandosi alla loro condizione psicologica, espressa – appunto – in termini di movimento.
Quel che più mi preme qui è di sottolineare una caratteristica di impostazione registica che certo appartiene più a Donen che a Kelly, il quale è peraltro un ballerino-attore dotatissimo e adattissimo per tradurla sullo schermo. Kelly, è risaputo, sprizza energia da tutti i pori, a un punto tale che se da un lato le sue partner non possono che soffrirne (a differenza di quelle di un Fred Astaire, il quale – come è stato detto – riusciva spesso a farle apparire ancor più brave di quanto non fossero), dall’altro egli riesce di norma a comunicare vitalità all’ambiente nel quale piroetta e balza come soltanto lui sa fare.
Franco La Polla, Stanley Donen/Gene Kelly, Cantando sotto la pioggia, Lindau, Torino 1997
Gene Kelly
Degno allievo di Minnelli, Gene Kelly, il miglior ballerino del cinema d’oggi (dopo il geniale Fred Astaire) è anche il miglior regista di musical del nostro tempo. […] Come descrivere la gioia profonda che mi pervade a ogni visione di Singin’ in the Rain, durante la sequenza dello studio vuoto, trasformato dalla forza dell’amore in un luogo di sogno, col chiaro di luna, il fumo che si sparge sul pavimento e la brezza romantica? Compiango coloro che rimangono insensibili all’erotismo così libero, naturale e reale dei musical.
Ado Kyrou, Notes sur l’erotisme des films de danse, “Positif”, n. 12, novembre-dicembre 1954
La crescita in termini di ruolo, rilevanza e attribuzione di credits da parte delle produzioni teatrali (e cinematografiche) della componente della danza nel musical è anche il contesto nuovo e propulsivo che permette a Gene Kelly (al secolo Eugene Curran Kelly, 1912-1996) di affermarsi negli anni Quaranta e Cinquanta, mentre la stella di Fred Astaire è in progressivo declino, nonostante la sua invidiabile forma fisica e vitalità. Irlandese di origine […], Kelly appare un brillante autodidatta e si afferma per il carattere ginnico-atletico ed elegante del suo stile coreutico e poi in parte coreografico, per il sorriso, la bellezza fisica e l’eleganza nel vestire, congruente con la nuova estetica dello star-system ma decisamente distante rispetto al modello classico di Fred Astaire. Apprendista di talento nella Broadway della seconda metà degli anni Trenta, Kelly si misura via via con varie produzioni tra le quali la più significativa è certamente Leave It to Me! di Cole Porter del 1938 […]. Protagonista in Pal Joey di Rodgers e Hart, lo spettacolo teatrale del 1940 che lo rende celebre, Kelly deve l’ascesa della sua fortuna professionale al positivo impatto con il mondo cinematografico hollywoodiano, nel quale è coinvolto proprio a seguito delle ottime risposte di pubblico e critica a questo spettacolo di Broadway. […] Proprio nella capitale del cinema Kelly interpreta come attore e ballerino (e, acquisita esperienza, anche come regista e attore) alcuni titoli destinati a rimanere pietre miliari del musical su grande schermo, in particolare For Me and My Gal (1942), Du Barry Was a Lady (1943), Anchors Aweigh (1943), Take Me Out to the Ball Game (1948), On the Town (1949), Invitation to Dance (1956), in alcuni dei quali figura un giovane Frank Sinatra, e due pellicole che gli sono valse, come del resto ai loro autori, la notorietà mondiale: An American in Paris (1951) e Singin’ in the Rain (1952). […] Attento alla caratterizzazione dei personaggi e della storia, Gene Kelly appare infatti particolarmente a suo agio, se non innovativo, nel tradurre in termini teatrali tipici elementi del balletto e nell’applicare alla regia cinematografica, come e diversamente dal progenitore Busby Berkeley, le novità offerte dalla tecnologia nell’uso delle cineprese, le risorse della scenografia, gli effetti speciali. In questo senso, la sua carriera si orienta sempre più in direzione della regia cinematografica, anche grazie alla collaborazione e amicizia con Stanley Donen.
Luca Cerchiari, Storia del musical. Teatro e cinema da Offenbach alla musica pop, Bompiani, Milano 2017
Stanley Donen
Erede della grande stagione classica del musical, Stanley Donen è stato, a un tempo, innovatore e custode della memoria di quel cinema, creando sequenze e ‘numeri’ di grande virtuosismo tecnico e facendo costantemente dialogare modelli teatrali e stilemi cinematografici, attraverso i quali ha elaborato un complesso gioco di specchi, come esito di una riflessione sul cinema e i suoi codici. […] Dopo aver studiato danza classica al Town Theater di Columbia, nel 1940 debuttò come ballerino a Broadway, nel musical Pal Joey. In quell’occasione conobbe Gene Kelly, con il quale avviò una solida amicizia e una lunga collaborazione professionale. Nel 1943 fu chiamato da Arthur Freed alla Metro Goldwyn Mayer come assistente di Charles Walters per le coreografie di Best Foot Forward, di Edward Buzzell, nel quale ricoprì anche un piccolo ruolo. L’attività alla MGM proseguì fino al 1949, permettendo a Donen di firmare le coreografie di Holiday in Mexico (1946) di George Sidney, No Leave, No Love (1946) di Charles Martin, This Time for Keeps (1947) di Richard Thorpe, le sequenze danzate di Living in a Big Way (1947) di Gregory La Cava, e di scrivere, con Gene Kelly, il soggetto di Take Me Out to the Ball Game (1949, Facciamo il tifo insieme) di Busby Berkeley, del quale curò, con Kelly, anche le coreografie. Nel 1949 esordì come regista, in coppia con Kelly, con lo spumeggiante On the Town (Un giorno a New York), un musical che, in modo radicale, sposta l’azione dagli studi alle strade, per una spericolata scorribanda piena di energia vitale e di acuti richiami al cinema muto, rilevabili […]. Della nuova maniera di concepire un musical Donen è stato, con Vincente Minnelli, l’artefice più incisivo, in particolare con il suo film più celebrato, Singin’ in the Rain. Codiretto con Kelly, si pone tra i vertici di un genere che, grazie a Donen e a Kelly (e a Minnelli), mutò la funzione delle componenti danzate e musicali, mettendole in stretto legame con la tessitura narrativa. Film sul cinema, argutamente rivisitato nel periodo di passaggio dal muto al sonoro, Singin’ in the Rain rivela la cifra espressiva più propria di Donen (e di Kelly) che risiede nell’aver immesso uno stile classico dentro un nuovo modo di sentire, che del primo diviene superamento ma anche nostalgia.
Marco Pistoia, Enciclopedia del Cinema, Treccani, 2003