Non vi sono personaggi in Carrie, ma solo prodotti riciclati. Gli attori, arricchiscono i loro ruoli, di mitici echi confezionati, ognuno interpreta un campionario di vecchie immagini popolari. La Carrie di Sissy Spacek frequenta la Bates High School – Norman Bates gestiva il motel di Psyco – e la scena girata nella doccia della palestra è una variazione di quella della famosa doccia di Psyco. A casa, Carrie è la Patty Duke delle prime scene di The Goddess ma dopo essersi preparata da sola il vestito, va alla festa e diventa anche la Katherine Hepburn di Alice Adams, e quando è in compagnia del biondo e sensibile Tommy (William Katt), i due diventano la versione giovanile della coppia Streisand-Redford in Come eravamo. ‘Love Among the Stars’ è il tema che gli studenti hanno scelto per la loro festa. […]
Sebbene poche attrici si siano distinte nel genere gotico, Sissy Spacek, che è sempre presente sullo schermo, fornisce una classica interpretazione ‘camaleontica’. Si sposta avanti e indietro, in tutte le direzioni: è nasale e piagnucolosa quando implora l’affetto della madre e ogni parola le raschia la gola, diventa una giovane e casta bellezza quando va alla festa e si trasforma ancora quando i suoi poteri distruttivi esplodono e la rendono adulta. Sissy Spacek usa il suo pallore lentigginoso e le sue ciglia biancastre per farci immaginare una ragazza-ranocchia che salta in ogni direzione, alle volte sembra non-nata: un feto. Non si vede come la sua interpretazione potesse essere migliore.
Pauline Kael, “The New Yorker”, 22 novembre 1976
Carrie rivela una profondità tematica che lo porta ben oltre il livello dei semplici o banali espedienti per fare paura. Nel tessuto della trama da storia dell’orrore sono chiaramente intrecciate alcune paure molto reali e riconoscibili della vita americana contemporanea, in primis il trauma dell’adolescenza femminile quando è sottoposta alla duplice terrore dell’ambiente ansiogeno e conformista della scuola superiore e delle preoccupazioni morbose dell’ideologia religiosa cristiana.
De Palma sfrutta efficacemente questi elementi, satireggiandoli in alcuni momenti con un minaccioso tocco hitchcockiano e utilizzandoli seriamente in altri per aumentare l’atmosfera di paura e di tensione. Con lo stesso obiettivo, lo stile visivo lussureggiante ed eccessivo di De Palma, unito alla trama promettente, opera con discreto successo. […] All’inizio del film, Carrie è bloccata in un ruolo adolescenziale piuttosto tipico e autenticamente orribile. Non solo non è ‘popolare’ (il che, di per sé, assume le proporzioni di un vero dramma per tante giovani adolescenti), ma, peggio ancora, è un’emarginata, un capro espiatorio, un mostro. […] Il film è un’immagine da incubo del potere femminile, in quanto Carrie distrugge tutto, compresa se stessa, con il potere della telecinesi, tematicamente e simbolicamente legato alla sessualità femminile.
David Rosen, “Cineaste”, n. 1, 1977
Il terrificante capolavoro di Brian De Palma del 1976 […] è un classico dell’horror che non si conforma ai ritmi narrativi del genere; un film di paura in cui il demone spaventoso è anche la final girl. […] E quella sconcertante e prolungata sequenza del ballo – in cui Carrie si trasforma da brutto anatroccolo a cigno, e infine in qualcosa di completamente diverso – il suo significato e la sua atmosfera cambiano a una successiva visione. La prima volta che la si guarda, l’epilogo è uno shock, nonostante il fatto che nelle scene precedenti si sia vista la sordida pianificazione che l’ha preceduta. Ma la seconda volta la scena è, dall’inizio alla fine, un’insopportabile prova di pura malvagità: passano minuti e minuti mentre Carrie progressivamente si rilassa e comincia a divertirsi con il meraviglioso ragazzo che l’ha accompagnata all’appuntamento. E poi, quando lei scatena la sua rabbia telecinetica, De Palma frammenta lo spettacolo con uno split-screen: una folle carneficina in stile death metal.
Carrie parla di tutto ciò di cui non sapeva di parlare: della misoginia interiorizzata e dell’odio verso se stessi, e del teatro della crudeltà insito nella popolarità liceale. Non parla esplicitamente di sparatorie nelle scuole, eppure mostra, come nessun altro film che abbia mai visto, l’orribile estasi appagante di questi atti terribili. De Palma è l’unico regista che avrebbe potuto farlo.
Peter Bradshaw, “The Guardian”, 17 ottobre 2024