C’è da dire e subito, che da un punto di vista puramente artistico Ladri di biciclette è cosa assai superiore, più delicata e poetica e, scusate la parola grossa, universale. Non è altro che la storia d’un povero (usiamo la categoria già da tempo cara a Zavattini, cui va tanto merito di quest’opera) cui rubano la bicicletta, essenziale per il suo lavoro d’attacchino nella capitale e della sua ricerca frustrata, in compagnia del bambino, sino al disperato e inutile tentativo di rubarsene una che lo compensi e gli permetta di tornare al lavoro. È una domenica di Roma, con sole e pioggia, cucine economiche e quartieri malfamati, mercati e trattorie e attraverso essa vanno i due, padre e figlio, in una delle più care e commoventi camminate della storia del cinema. Degna, senza scherzi, di quel capolavoro che è Il monello, cui del resto è probabile che Zavattini e De Sica si siano ispirati: Informazione non presentea di male, anzi. Che cosa di questa umile cronaca quotidiana abbia saputo fare De Sica vedrà ogni spettatore: non v’è un’inquadratura convenzionale, ogni gesto e sguardo è vero, ogni ambiente è paesaggio urbano e intenso di luce (o ombra) vera, ogni situazione credibile eppure patetica. Si pensa a certe minime illuminazioni psicologiche (il bambino che scappa un istante e s’accosta al muro perché, anche per l’ansia, non ne può più) alla grande lezione che Cechov con i suoi drammi e novelle ci ha dato. E ancora da citare la lite del padre col bambino, forse la cosa più bella del film, e tutto il resto infine: che non c’è Informazione non presentea da buttare via. Zavattini e De Sica ci hanno dato un film memorabile, che farà bene, speriamo, al pubblico intossicato da tante drogate scemenze. E Oscar o no, per noi il bambino è il più incantevole attore di questi anni.

(Attilio Bertolucci, “La Gazzetta di Parma”, 27 gennaio 1949)




Antonio Alecci, di Giorgio, di anni 24, ha tentato, alle ore 9 di venerdì 21 gennaio, in corso Vercelli, di rubare la bicicletta di un commerciante. Raggiunto, percosso a sangue dalla folla accorsa, è stato consegnato agli agenti. La sera di quel medesimo giorno, la folla dell’Odeon aveva pagato due milioni e mezzo di lire per vedere la prima del film di De Sica e commuoversene. La vita, evidentemente, non imita sempre l’arte. I poveri straziano spesso i poveri e sempre si fanno straziare dai ricchi. Le cose danno torto alla morale della pietà; e non solo in questa occasione.
Perché questa, della pietà, è la prima e più appariscente ‘morale’ del film. Noi che tante volte siamo stati tentati di discorrere di quel capitale specchio del costume che è il cinema e non l’abbiamo fatto per non ricamare variazioni letterarie su di un mezzo espressivo la cui struttura tecnica ci è quasi sconosciuta, non parleremmo di questo film se non fossimo convinti che Ladri di biciclette è un documento di importanza eccezionale per la cultura italiana.

(Franco Fortini, “Avanti!”, 15 marzo 1949)




La prima validità di Ladri di biciclette consiste nell’essere questo film un limpido esempio da meditare, da citare, da prendere in considerazione al fine di chiarire alcuni fondamentali errori che ingombrano il problema estetico del cinema. Lasciamo da parte l”equivoco letterario’ […]. È ormai acquisito che il regista-artista, in quanto tale, crea e non può quindi tradurre o rimanere fedele al modello cui si ispira. […] Un altro pregiudizio, al cui chiarimento contribuisce Ladri di biciclette, è quello alimentato ogni giorno dai mercanti i quali, preoccupati di suscitare una bassa curiosità, sostengono che il cinema ha bisogno di intrecci complicati. Il film di De Sica, in quanto non è un prodotto mercantile, non ha intreccio nel senso comune della parola; così come non lo hanno La corazzata Potëmkin (1925) di Ejzenštein e Tabù (1931) di Murnau, Il monello (1929) di Chaplin e L’uomo di Aran (1933-34) di Flaherty che sono tra le poche opere che il cinema possa vantare per inserirsi nella storia dell’arte. […]
Il terzo equivoco che Ladri di biciclette chiarisce è quello del neorealismo […]. Noi oggi contiamo, oltre a De Sica, due registi più degli altri significativi: Rossellini e Visconti. Il ‘realismo’ del primo, nei casi migliori, si basa su una analisi psicologica tragicamente fredda: come un ‘vetro ghiacciato’, ebbe a dichiarare lo stesso regista. Il ‘realismo’ del secondo ricerca una fusione di elementi umani e figurativi. Entrambi, con le loro opere frammentarie, sono arrivati a valori di indubbia importanza indicando, in modi diversi, vie nuove: quelle dello stile. Ma laddove né l’uno né l’altro sono arrivati, è giunto invece De Sica; cioè ad una maggiore coerenza poetica, ad una partecipazione umana più uniforme. […]
Ultimo equivoco da chiarire. Oggi si parla di un ‘miracolo De Sica’. Ma ancora una volta i miracoli non c’entrano. De Sica è arrivato a Ladri di biciclette per gradi, dopo elaborazioni e progressive esperienze. […] E noi inauguriamo le quattro stellette, anche per riconoscere le passate esperienze di De Sica, lieti inoltre di poter cosi riconfermare la fiducia espressa da De Santis nel 1942, proprio in questa rubrica. “Si riconosceranno, nel posteriore Teresa Venerdì e in questo Garibaldino al convento“, scriveva De Santis, “i segni concreti di una premessa e di una aspirazione che, certo, non potranno non essere mantenute, con quella stessa fede e con quello stesso impegno”.

(Guido Aristarco, “Cinema”, 15 gennaio 1949)




Gli esteti del cinema hanno antipatia per i ‘contenutisti’, che si soffermano su quel che dice il film e non sul modo come lo dice. Non sempre gli esteti hanno torto, se i valori stilistici di un’opera d’arte fanno l’opera d’arte. Questa volta tuttavia, per Ladri di biciclette, l’ultima fatica di Vittorio De Sica, non c’è giudizio che valga finché si trascura la materia del racconto. Il film è tutto nei casi dei suoi personaggi; meglio, nella scia che questi casi lasciano dietro di sé, sull’animo della gente. È un film bello, ma più ancora un film buono. […] Il film è, in sostanza un punto interrogativo: perché gli uomini non si vogliono bene? Non vi sono acrimonie di classe, in Ladri di biciclette, né urti ideologici: si tratta di un povero diavolo che altri poveri diavoli perseguitano, o considerano con indifferenza. Senza l’inquietante interrogativo, la pellicola resterebbe ferma al bozzettismo, allo schizzo d’ambiente; ma il quesito è proposto; più come un accorato rimpianto che come una requisitoria; con tristezza più che con rancore ma è proposto. Vittorio De Sica (e Cesare Zavattini che ha lavorato intorno al soggetto, s’indovina, con trepidazione e ispirazione) conferma e rafforza, in Ladri di biciclette, l’estro delle opere precedenti, e specie di Sciuscià. De Sica è il lirico della solidarietà umana; è un bene che egli abbia respiro e voce, nel nostro cinema, a cui fa onore. Quando s’è detto, più su, che i valori estetici non prevalgono su quelli spirituali, nel film, non si voleva intendere che mancassero: può darsi che Il monello, di Charlot, abbia ispirato la marcia dell’uomo e del fanciullo lungo le strade della città, foresta di pietra e d’asfalto inconsapevole e ostile. Altra atmosfera, altro stile. Ma eguale sete di affetti, identica ansia di pacificazione col mondo.

(Arturo Lanocita, “Corriere della Sera”, 21 gennaio 1949)




Gli italiani ci hanno mandato un altro film eccezionale, sconvolgente, un dramma doloroso sulla vita di una città moderna. Acclamato con fervore da coloro che lo hanno visto all’estero, questo film commovente probabilmente soddisferà tutte le previsioni di un grande trionfo. Ancora una volta il talentuoso De Sica, che già ci diede lo straordinario Sciuscià, […] ha affrontato e dato forma con acutezza e in modo semplice e realistico a un tema fondamentale e universale, l’isolamento e la solitudine dell’uomo comune in questo mondo complesso […]. Anche se ha ambientato il suo film nelle strade di Roma e lo ha popolato di caratteri tipicamente contemporanei, De Sica si occupa di qualcosa che non riguarda solo Roma e che non ha radici solo nella sofferenza del dopoguerra. Riflette sui penosi paradossi della povertà, ovunque essa sia, e sui più bassi istinti di conservazione dell’uomo nella disperata lotta per la sopravvivenza. E anche se il suo punto di vista è legato alla vita romana, De Sica offre uno specchio a milioni di esseri umani. […] Storia e struttura del film avrebbero potute essere usate dal Chaplin dei bei vecchi tempi per uno dei suoi grandi film malinconici, poiché l’essenza di Ladri di biciclette sta nella sua ironia amara e pungente – l’ironia di un uomo comune in un mondo indifferente. […] De Sica ha realizzato un film straziante ma capace di calore e di compassione: un film che tutti dovrebbero vedere e su cui tutti dovrebbero riflettere.

(Bosley Crowther, “The New York Times”, 13 dicembre 1949




L’opera più celebre del neorealismo. Riflessione immediata sul presente, sguardo pieno di compassione verso gli umili che lottano per sopravvivere in un mondo tutto da ricostruire. De Sica ha riunito nel suo film vari elementi che vanno dritto al cuore del pubblico: la dignità del tono, il lirismo, il rifiuto della disperazione. Ma come se non si fidasse del puro realismo, De Sica semina il percorso dei suoi personaggi di segni ambigui che assorbono l’attenzione dello spettatore. E poi c’è Roma, descritta come un labirinto dove l’eroe e il ladro, sempre vicini spazialmente l’uno all’altro, sembrano giocare a nascondino e finiscono per scambiarsi i ruoli come nei film di Hitchcock. Il ladro, scoperto, apparirà come una vittima e la vittima diventerà ladro a sua volta. Questa abile peripezia finale si ripercuote a molteplici livelli: psicologico, sociale, morale, spirituale. L’ultima miseria del disoccupato diviene la perdita di identità accompagnata da una perdita, non meno grave, della stima di sé e degli altri. Appare evidente, attraverso questo film, ciò che colpisce il pubblico nel neorealismo: che un intrigo all’inizio estremamente labile, composto di peripezie quotidiane e minuscole, finisca per avere echi tanto profondi da raggiungere poco a poco tutti gli strati della coscienza del protagonista e dello spettatore.

(Jacques Lourcelles, Dictionnaire du cinéma. Les films, Robert Laffont, 1992)