Per me il neorealismo, come viene chiamato, non può essere altro che il trattamento della realtà sotto una forma lirica, però trasferita su un piano più alto.

(Vittorio De Sica)




Il neorealismo ha avuto un’influenza enorme sul cinema di tutto il mondo. L’aspirazione di molti grandi cineasti è stata sempre, da allora, di riuscire a raggiungere quella sorta di realismo poetico che il neorealismo ha introdotto nel cinema.

(Peter Bogdanovich)




Neorealista, Ladri di biciclette lo è secondo tutti i principi che si possono ricavare dai migliori film italiani dal 1946 ad ora. Intrigo ‘popolare’ e addirittura populista: un incidente della vita quotidiana di un lavoratore. […] Un incidente davvero insignificante, banale persino: un operaio passa tutto il giorno a ricercare invano a Roma la bicicletta che gli hanno rubato. […]
È evidente che non c’è neppure la materia di un fatto di cronaca: tutta questa storia non meriterebbe neppure due righe nella rubrica dei cani investiti. […] L’avvenimento non possiede in se stesso alcuna valenza drammatica propria. Prende senso solo in funzione della congiuntura sociale (e non psicologica o estetica) della vittima. Non sarebbe altro che una banale disavventura senza lo spettro della disoccupazione che lo situa nella società italiana del 1948. […]
Se Ladri di biciclette è un puro capolavoro paragonabile per il rigore a Paisà, è per un certo numero di ragioni ben precise che non appaiono mai nel semplice riassunto della storia e neppure nell’esposizione superficiale della tecnica di regia.
La sceneggiatura innanzitutto è di un’abilità diabolica, poiché regola, a partire dall’alibi dell’attualità sociale, più sistemi di coordinate drammatiche che la puntellano in tutti i sensi. […] La tesi implicata è di una meravigliosa e atroce semplicità: nel mondo in cui vive questo operaio, i poveri, per sussistere, devono derubarsi fra di loro. Ma questa tesi non è mai posta come tale, il concatenamento degli avvenimenti è sempre di una verosimiglianza insieme rigorosa e aneddotica. […]
Come si vede – e potrei trovare venti altri esempi – gli avvenimenti e gli esseri non sono mai sollecitati nel senso di una tesi sociale. Ma la tesi ne esce tutta agguerrita e tanto più irrefutabile in quanto non ci viene data che in sovrappiù. È il nostro spirito a ricavarla e a costruirla, non il film. De Sica vince ogni volta sul tableau in cui… non ha puntato.
Questa tecnica non è affatto nuova nei film italiani e abbiamo insistito a lungo sul suo valore, a proposito di Paisà e, più di recente, di Germania anno zero, ma questi due ultimi film si rifacevano ai temi della Resistenza e della guerra. Ladri di biciclette è il primo esempio decisivo della conversione possibile di questo ‘oggettivismo’ a soggetti interscambiabili. De Sica e Zavattini hanno fatto passare il neorealismo dalla Resistenza alla Rivoluzione.

(André Bazin, Che cosa è il cinema?, Garzanti, Milano 1973)




Ladri di biciclette
rappresenta, per molti versi, il centro ideale del neorealismo cinematografico italiano. Il film di Vittorio De Sica e Cesare Zavattini (per quanto alla voce ‘sceneggiatura’ si affollino molti nomi, il lavoro fu svolto essenzialmente da quest’ultimo, con il quale De Sica formò uno dei sodalizi più duraturi e produttivi nella storia del cinema italiano) possiede tutte le caratteristiche di fondo del movimento: ambienti reali, attori non professionisti, una vicenda drammatica sulla durezza della vita quotidiana delle classi popolari. Non che Ladri di biciclette sia esteticamente più compiuto di altri capolavori neorealisti, da Roma città aperta di Rossellini a La terra trema di Visconti: ma certo il film di De Sica incarna nell’immaginario collettivo internazionale (vinse l’Oscar come miglior film straniero) la quintessenza del neorealismo. Tale ‘centralità’ dipende anche dal fatto che il film appare una sorta di radiografia dell’Italia nel cruciale 1948, anno che vide il paese violentemente spaccato in due, tra Fronte popolare e Democrazia cristiana, alle elezioni del 18 aprile. Antonio si imbatte in una serie di situazioni e personaggi rappresentativi del clima sociopolitico dell’epoca: la stazione di polizia, con il reparto Celere che parte alla volta di un comizio; la riunione della cellula sindacale; le dame di carità che offrono un pasto ai poveri, ma solo dopo che questi hanno ascoltato la messa; i ricchi del tavolo accanto nella trattoria, il cui lauto banchetto, innaffiato dallo spumante, lascia esterrefatti Antonio e Bruno. Attraverso la lunga ‘passeggiata’ romana alla ricerca della bicicletta emerge uno spaccato ricchissimo della vita italiana del dopoguerra, con i suoi drammi e suoi piccoli eroismi, tra i segni del conflitto da poco terminato e i segnali di una rinascita che sta per arrivare. E la vicenda di Antonio è tanto più tragica, quanto più il personaggio sembra essere incapace di far parte di quel ‘miracolo italiano’ che sta per avere luogo.
[…] Certo Ladri di biciclette, nel contesto del cinema iperstilizzato degli anni Trenta-Quaranta, presenta inediti elementi di realismo: inoltre, sul piano della costruzione drammaturgica il film obbedisce alla teoria zavattiniana del ‘pedinamento’, per cui la macchina da presa segue i personaggi come in tempo reale (l’ultima mezz’ora del film è quasi completamente priva di salti temporali). Lo stesso soggetto è di una banalità disarmante, apparentemente materia insufficiente a un film; la grandezza di De Sica e Zavattini è proprio qui, nella loro capacità di conquistare lo spettatore con una vicenda minimale. Ma a ben guardare, Ladri di biciclette non è affatto ‘film senza film’: se lo spettatore ne viene conquistato è perché dietro c’è un lavoro sapiente di scrittura, una scrittura che – come sempre in ogni forma di arte realista – punta a negare la propria presenza, a travestire l’artificio stilistico da ‘realtà’.

(Giaime Alonge, Enciclopedia del Cinema, Treccani, 2004)