L’idea è quella di una rivalità tra due clan ugualmente spietati. Sappiamo cosa significa. Si è presi nel mezzo, ed è impossibile scegliere tra due mali. Io stesso ho sempre desiderato porre fine, in un modo o nell’altro, a queste lotte senza senso del male contro il male, ma siamo tutti, chi più chi meno, deboli: non ci sono mai riuscito. Ecco perché l’eroe di questo film è diverso da noi. È in grado di stare esattamente nel mezzo e di fermare la battaglia. Ed è a lui che ho pensato all’inizio. Così è nata l’idea del film.
Akira Kurosawa, in Kurosawa, Éditions Seghers, Parigi 1973
Il successo internazionale di La fortezza nascosta stimola l’immaginazione epica dell’autore. Dopo I cattivi dormono in pace (1960) Kurosawa gira altri due film in costume che suonano come una parodia dei jidaigeki tradizionali. Il primo, La sfida del samurai (ma il titolo originale significa ‘La guardia del corpo’), avrà un’inattesa eco internazionale: sarà involontariamente all’origine del western all’italiana. La vicenda di La sfida del samurai e Sanjuro è ambientata non più nel XVI secolo (come I sette samurai, La fortezza nascosta, e più tardi Kagemusha e Ran) ma nell’era Tokugawa (1603-1867). Due secoli di immobilismo sociale e culturale che hanno profondamente modificato le finalità e gli ideali della classe dei signori della guerra: i samurai che non sono riusciti a trovarsi un impiego stabile vivono di espedienti, spesso diventano guardie del corpo di giocatori e avventurieri. Il protagonista di La sfida del samurai e Sanjuro è uno di questi ‘ronin’ (samurai senza padrone) che vendono i propri servizi al migliore offerente. Nel nuovo contesto storico, il rigido codice d’onore dei samurai (bushido, bushi significa ‘guerriero’) non ha più senso. Gli ideali del ronin Sanjuro (‘trent’anni’, un modo per dire Nessuno come Ulisse) non possono più essere quelli umanitari ed eroici di Kambei e dei ‘sette’ compagni, di Rokurota e Tadokoro. Sanjuro combatte gli scellerati con le loro stesse armi, astuzia e ‘cinismo’; questo cinismo apparente rende ancora più moderno il personaggio che ispirerà il diabolico giustiziere di Per un pugno di dollari.
Aldo Tassone, Akira Kurosawa, Il Castoro, Milano 1998
L’idea di partenza di La sfida del samurai è così semplice che mi meraviglia non ci avesse pensato qualcuno prima: usando più il cervello che la spada, il protagonista – un uomo cinico solo all’apparenza, in realtà un idealista – accelera la fine dei clan rivali che si contendono la piazza, facendo il doppio gioco e aizzandoli gli uni contro gli altri. L’enorme successo di La sfida del samurai in Giappone è stato spiegato da molti con il fatto che il mercenario interpretato da Mifune è un irresistibile spadaccino e una diabolica ‘canaglia’; si è dimenticato che è soprattutto un eroe antico che si batte per un ideale di giustizia usando le armi degli avversari. Questo aspetto essenziale è stato troppo trascurato nel remake che ne ha fatto due anni dopo Sergio Leone.
Akira Kurosawa, L’ultimo samurai. Quasi un’autobiografia, a cura di Aldo Tassone, Baldini & Castoldi, Milano 1995
La sfida del samurai, realizzato nel 1961 da una sceneggiatura di Ryuzo Kikushima e Kurosawa, ci riporta indietro di un secolo alla fine del periodo Edo, quando il quindicesimo e ultimo Shogun si dimise in favore dell’imperatore, ponendo fine al potere dei samurai che durava dal XIII secolo. Prima che la Restaurazione Meiji e il Secolo dei Lumi dessero il via alla nuova svolta del Giappone moderno, la violenza, il banditismo e la legge del più forte favorivano gli avventurosi e gli audaci, creando quell’atmosfera da Far West giapponese che ritroviamo in molti film di Kurosawa. Un giorno, Sanjuro Kuwabatake (Toshiro Mifune), un soldato di ventura come ne abbiamo già visti tanti, giunge in una piccola città a nord dell’antica Tokyo (o Edo), dove regna l’insicurezza, e offre i suoi servigi all’una o all’altra delle due bande che si spartiscono la città. Ha capito cosa sta succedendo: il capo della polizia fa lo spavaldo, la gente del luogo è spaventata, le strade sono piene di cadaveri, gli affari sono fermi […]. Ecco quindi i due gruppi rivali, che si spiano e si combattono senza pietà: Seibei, che sostiene Tazaemon, un mercante di seta, è a capo di un gruppo, mentre Ushitora, alleato di Tokuemon, grande produttore di sakè, comanda l’altro.
Sacha Ezratty, Kurosawa, Éditions universitaires, Parigi 1969
Con La sfida del samurai, Kurosawa ci offre una modernissima parabola sulla cupidigia, una parodia sferzante e divertente della violenza che all’uscita venne interpreta nei modi più strampalati. Qualcuno vide nel film la rappresentazione simbolica della guerra fredda: il mercenario Sanjuro impersonerebbe il terzo mondo corteggiato dai due blocchi!? Più modestamente Kurosawa pensa agli yakuza del suo paese: il supersamurai è chiamato a far piazza pulita della squallida genia di loschi giocatori, mafiosi, killer che spadroneggiano sugli schermi e nella vita dei giapponesi. È lo stesso motivo che animava I cattivi dormono in pace girato l’anno prima: la novità, forse la superiorità, di La sfida del samurai va ricercata nella chiave ironico-grottesca adottata qui dal regista. Magistralmente interpretato da Mifune (miglior attore alla mostra veneziana), raffinatissimamente fotografato da Miyagawa (l’operatore di Mizoguchi e di Rashomon è un genio delle tonalità grigie), questo film graffiante ha un ritmo indiavolato, efficacemente scandito dal sarcastico commento musicale (una libera rielaborazione della seconda rapsodia ungherese di Liszt, con clavicembalo obbligato).
Aldo Tassone, Akira Kurosawa, Il Castoro, Milano 1998