Il dittatore e il cinema: Chaplin e Hitler

Quel tipo è uno dei più grandi attori che abbia mai visto.
(Charlie Chaplin dopo aver analizzato Adolf Hitler nei filmati di propaganda)




A parte i valori intrinseci del film, Il dittatore costituisce un fenomeno davvero unico, un evento epico e senza precedenti nella storia dell’umanità: il clown più universalmente famoso e amato del suo tempo sfidava apertamente l’uomo che aveva causato più orrori e sofferenze di chiunque altro nell’epoca moderna.
(David Robinson)




Chaplin e Hitler nacquero nello stesso anno, nella stessa settimana dello stesso mese, la terza di aprile del 1889. Non è necessario credere all’astrologia per interpretarlo come un segno. Le loro carriere, le loro vite, i personaggi che hanno incarnato coincidono sotto molti aspetti, e il fatto che Chaplin abbia realizzato un film su Hitler non è affatto casuale.
Con Il grande dittatore Charlie Chaplin raggiunse l’apice artistico, sia rispetto alla sua opera che al cinema nella quale essa si iscriveva. […]
Mai come negli anni che videro la fioritura delle dittature e delle figure dei leader totalitari, cinema e politica sono stati così intimamente legati. La storia del cinema (teorica e pratica), ma anche la storia con la S maiuscola, hanno piuttosto tralasciato questa relazione: si è discusso ampiamente di come i dittatori manipolassero il cinema, ma ben poco di come i dittatori fossero manipolati dal cinema. Stalin, Hitler e Mussolini appartenevano alla prima generazione di politici cresciuti con il cinema, tutti e tre provenivano dalla piccola borghesia per la quale, all’alba del Novecento, il cinema divenne il principale mezzo d’intrattenimento e di conoscenza sociale. Amavano l’arte ‘bella e superflua’: il teatro (Mussolini), l’opera (Hitler), la danza (Stalin), ma era il cinema, quella più triviale, ad accompagnare le loro esistenze in maniera diretta. Si tratta di un fenomeno senza precedenti: i politici a loro coevi si interessavano al cinema solo quando dovevano censurare un film.
Reinhold Hanisch [socio in affari di Hitler negli anni viennesi] raccontò di quella volta in cui Hitler tornò a casa dopo aver visto un film che aveva per protagonista un oratore: era trasfigurato, come ‘ubriaco’, e ne parlò per ore.
L’arte oratoria di Hitler fu indubbiamente ispirata dalla visione di immagini in movimento di oratori politici e del loro pubblico. Più che nelle parole, Hitler credeva nelle immagini, nei simboli, nello spettacolo. L’ascesa dei dittatori avvenne durante l’epoca d’oro del cinema muto, mentre il loro apogeo coincise con l’avvento del sonoro.
La nostra immagine cinematografica del Terzo Reich – Il trionfo della volontà, Olympia, La bella maledetta, Die Deutsche Wochenschau – è in bianco e nero, estremamente curata nella retorica, ricca di suoni e musica, diretta e montata con sapienza (in modo che tutti i film amatoriali dell’epoca, girati con una macchina da presa a spalla, muti e a colori, sembrassero degli atti sovversivi, anche quelli di Eva Braun, ampiamente sfruttati, senza essere compresi, dalla televisione).





Il che ci riporta a Chaplin e a Il grande dittatore. Chaplin e Hitler furono visibilmente accomunati dai baffi. Soggetti nel tempo a piccole mutazioni, resistettero comunque, con ostinazione, ai ripetuti attacchi dei rasoi, per tramutarsi, infine, in una barba appena accennata. Entrambi ne ebbero cura e li protessero, quasi che dai baffi dipendesse la loro forza, come i capelli per Sansone. A differenza di Hitler, Chaplin portò i baffi solo sullo schermo, e se ne liberò dopo aver interpretato Hitler. Per entrambi erano forse il segno di una profonda insicurezza nelle relazioni sociali, che con sforzi sovrumani tentavano di compensare con l’affermazione della propria personalità.
A dire il vero, le biografie del Piccolo Charlie e del Grande Adolf offrono numerose affinità. Entrambi personalità asociali, incapaci di integrarsi, provenienti da famiglie proletarie disagiate, vissero in orfanotrofio e conobbero la fame. Entrambi coltivarono ambizioni artistiche che rimasero inespresse – Charlie come musicista, Hitler come pittore – e lasciarono il loro paese d’origine.
Nelle sue prime comiche degli anni Dieci, Charlie porta sullo schermo un personaggio aggressivo, individualista, dai modi quasi fascisti. E se, nel Grande dittatore, il piccolo barbiere ebreo incarna il successore del Vagabondo, in qualche modo anche Hynkel richiama alla memoria quel personaggio, ad esempio quando usa la lingua della sua segretaria per inumidire un francobollo, proprio come faceva Charlie in The Bank (1915). Ciò che distingue Hynkel da Charlot è la parola. Il grande dittatore è il primo film in cui Chaplin parla – aveva cantato prima, in Tempi moderni – ma solo Hitler è riuscito a farlo parlare. Anche Hitler conquistò lo schermo principalmente grazie alla parola, in veste di oratore. Ricordo quando mostrai a Leni Riefenstahl due dei tre rulli, ritenuti smarriti, di I giorni della libertà: il nostro esercito (1935), il suo terzo film girato in occasione del raduno delle forze armate tedesche a Norimberga. Riefenstahl mi disse che non avremmo dovuto mostrarli senza il rullo centrale, quello del discorso di Hitler, “die Führerrede”. Lo pronunciò con una sola sillaba, “die Fühde”, e aggiunse che si trattava del suo discorso più bello. Non osai chiederle cosa volesse dire: non credevo che avesse assistito a tutti i discorsi di Hitler, e in tal caso mi sembrava strano che li definisse ‘belli’. Solo in seguito, quando ritrovai il rullo mancante, capii il significato delle sue parole: tra tutti i film sui congressi di partito era la migliore sequenza di un discorso di Hitler mai realizzata, perfettamente concepita nella regia, nel suono e nell’accurato montaggio delle carrellate
(Enno Patalas)






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