Il mio film è un documentario su Jean Seberg e Jean-Paul Belmondo
JLG




Perché un ragazzo o una ragazza del [2021] riescono a sentire ancora Fino all’ultimo respiro come qualcosa di estremamente vivo, e se ne sentono ancora in qualche modo contemporanei anche se i passanti o le macchine sugli Champs-Élysées visibilmente appartengono ad un’altra epoca? È quest’illusione di avanzare nel film, secondo per secondo, seguendo la libertà inalienabile di Michel Poiccard. Questo modo di rivendicare cinematograficamente la libertà del personaggio, anche e soprattutto nel caso di un personaggio che ha una coscienza confusa della sua propria esistenza, e di farla sentire allo spettatore durante la sua esperienza del film, non è altro che una scelta politica, ed una morale, per un cinema – quale quello di un Rohmer o di un Rivette – che non si è mai smentito in cinquanta anni di storia.

Alain Bergala, La Nouvelle Vague o il cinema come arte dell’innesto, in Nouvelle Vague, a cura di Luca Venzi, Edizioni Fondazione Ente dello Spettacolo, Roma 2009




Godard non sembra essersi preoccupato di costruire dei personaggi ma di svelare la natura profonda dei due individui che aveva davanti alla macchina da presa. Non ci chiediamo cosa Michel Poiccard debba a Jean-Paul Belmondo o cosa Patricia debba a Jean Seberg ma esattamente il contrario. […] Prima delle riprese di Fino all’ultimo respiro la star era Jean. All’uscita del film fu Belmondo… Poi è la coppia ad essere diventata un mito.

Jean-Lou Alexandre, Une actrice sur la Vague: Jean Seberg, in “CinémAction”, n. 104, 2002




Tre erano i giovani attori che si imposero alla fine degli anni cinquanta nel rinnovamento del cinema francese, nella rivolta della Nouvelle Vague contro il ‘cinema di papà’: Belmondo il più ‘nuovo’, Alain Delon il più bello (che ‘esplose’ sullo schermo grazie a due grandi registi italiani uno dei quali molto ‘classico’, Visconti e Antonioni) e Laurent Terzieff il più bravo e il più sfortunato, che ebbe delle piccole rivincite come attore teatrale. Ma se Delon, pur bravo, si muoveva nella tradizione degli attori giovani del cinema classico, fu Belmondo a catturare l’attenzione dei giovani critici, irriverente, aggressivo, spavaldo, e soprattutto ribelle alle convinzioni sociali, nella scelta di una quasi marginalità dei suoi primi personaggi, e non solo. E il ruolo costruito su di lui da Jean-Luc Godard nel 1960 in À bout de souffle fu decisivo, seguito da quello di Pierrot le fou, per la sua affermazione.

Goffredo Fofi, “Avvenire”, 7 settembre 2021




Fino all’ultimo respiro
ha ottenuto il premio Jean Vigo. L’Atalante (l’ultimo film del più rimpianto poeta del cinema francese, morto nel 1934 a meno di trentanni), termina con una scena in cui Jean Dasté e Dita Parlo si abbracciano su un letto. Quella notte devono aver fatto senz’altro un bambino. Questo bambino è il Belmondo di Fino all’ultimo respiro.

François Truffaut




Dopo il successo di Peccatori in blue jeans […] Godard chiama Belmondo per il suo cortometraggio di venti minuti, Charlotte et son Jules: Jules sta come ‘tipo’, come ganzo, come bullo. […] Godard parla sempre a bassa voce e ha la stessa aria triste che Jean-Paul gli ha visto nei primi momenti in cui l’ha conosciuto. Però adesso trova in lui una profonda “vita interiore” che avrà ulteriori sviluppi e farà forse di lui il grande autore di domani nel cinema non solo francese ma internazionale. Anche il regista vede in lui la stoffa del grande comédien e dell’insostituibile nuovo tragico. […] Dopo A doppia mandata di Chabrol, ecco Fino all’ultimo respiro. È un trionfo. Cocteau dice subito la sua. Esclama: non mandate il film a Cannes, è troppo bello, troppo fine, troppo difficile, troppo troppo; lo sbranerebbero, come una tribù di cannibali farebbe con un neonato… E poi: Godard è un genio, Jean-Paul Belmondo è l’attore di domani. Per Belmondo, più che per la giovane e bella attrice americana Jean Seberg, per la quale pare che il produttore Georges du Beauregard abbia realizzato il film, gli aggettivi e i paragoni si sprecano. Lafcadio di Gide; ma anche i personaggi cinici e insieme romantici di Céline, e anche, soprattutto, Bogey.
Scriverà Tullio Kezich, più avanti (in “La Settimana Incom Illustrata”, 19 maggio 1967): “C’è una famosa scena di Fino all’ultimo respiro in cui Jean-Paul Belmondo si ferma ad ammirare una fotografia di Humphrey Bogart nella vetrinetta di un cinematografo. Potrebbe essere la chiave per capire una delle componenti più esclusive della nouvelle vague, l’ammirazione mitologica per un certo tipo di cinema americano. L’equazione Belmondo-Bogart, che l’esordiente regista Jean-Luc Godard cercò di stabilire nel suo film, nasce da un’antica ammirazione per opere come La foresta pietrificata e Una pallottola per Roy. I ventenni frastornati della Francia gollista identificano il proprio ideale di virilità nell’immagine hard boiled, proprio nell’accezione hemingwayana, dell’eroe sornione, amorale e tutto d’un pezzo. Perciò Fino all’ultimo respiro piace, appassiona come una testimonianza giovanile, di prima mano, ironica e anarchica”. Comunque sia, si tratta del classico colpo di fortuna per Belmondo, che da questo momento diverrà, per i francesi, Bebel, un vezzeggiativo che sa di tenerezza e di affetto. Egli arriva al momento giusto, a rimpiazzare la vecchia leva che se n’è andata o che se ne sta andando.

Giuseppe Turroni, Jean-Paul Belmondo, Il formichiere, Milano 1979




La Nouvelle Vague sostiene un gruppo di nuove attrici, come Brigitte Bardot, Bernadette Lafont e Jeanne Moreau, che corrispondono con una certa precisione a nuovi modelli femminili, fra i quali Jean Seberg occupa un posto senz’altro di rilievo, ma a parte.
Francese d’adozione dalla fine degli anni Cinquanta, Jean Seberg si sposa con il regista François Moreuil, per il quale interpreta nel 1960 Appuntamento con la vita (La Récréation). Con la Nouvelle Vague ha tutto sommato pochi rapporti professionali: un’altra interpretazione per Godard in Il profeta falsario (Le grand escroc), episodio di Le più belle truffe del mondo (Les plus belles escroqueries du monde, 1963) tagliato nell’edizione definitiva del film, e due per Chabrol in La Ligne de démarcation (1966) e Criminal story (1967); ma la sua fama sarà segnata per sempre dal personaggio melanconico e fatale di Patricia Franchini […].
La scelta di Jean Seberg da parte di Godard ha inoltre un rilevante valore cinefilo, essendo un omaggio diretto a una precisa parte del cinema americano, incarnata da Otto Preminger, il regista pigmalione della Seberg. Il gangster movie che Preminger inventa assieme ad altri registi europei emigrati in America è preso a modello per Fino all’ultimo respiro, sia per la galassia di riferimenti, personaggi, situazioni e atmosfere, sia per le modalità produttive che questi piccoli film, realizzati all’ombra dei kolossal hollywoodiani, adottano. […]
Patricia è simile a Cécile [Buongiorno tristezza!] per il taglio dei capelli e la scelta dei vestiti tra cui la francesissima maglia a strisce orizzontali – peraltro già vista addosso ad Anne Colette in Charlotte et son Jules. […] Un altro elemento portante della costruzione del personaggio di Patricia, anch’esso strettamente connesso alla sua prima vita premingeriana, è il richiamo alla società contemporanea attraverso la rappresentazione della nuova gioventù (Nouvelle Vague, per l’appunto) […]. Patricia è la tipica rappresentante di un milieu che Godard sembra conoscere bene, avendolo già messo in scena in Tous les gargons s’appellent Patrick e Charlotte et son Jules: quello degli studenti, frequentatori del Quartier Latin e dei locali di Montparnasse. La cultura di Patricia sembra essere un calco di quella di Godard.

Jacopo Chessa, Fino all’ultimo respiro, Lindau, Torino 2005