Se il musical è favola, questa, di tutte le favole, è forse la più bella. […] Tutto al posto giusto e con il ritmo giusto: Betty Comden e Adolph Green hanno messo a punto un congegno impeccabile. Prendendo a pretesto l’epoca del passaggio dal muto al sonoro, il musical, qui, rievoca ironicamente i propri balbettii, ma contemporaneamente esibisce l’attuale maturità di linguaggio. Utilizza, insomma, la propria protostoria all’interno d’uno spettacolo diverso e più complesso, con il quale racconta in sostanza se stesso. Dietro, tanto per cambiare, c’è Arthur Freed. L’idea di ricostruire la Hollywood terremotata dal suono è sua. Quei tempi li ha vissuti direttamente: ha collaborato ai primi due musical della MGM, The Broadway Melody e Hollywood Revue of 1929. Nel secondo, un sontuoso quadro di rivista in cui compare anche Buster Keaton si regge sulla canzone Singin’ in the Rain da lui scritta con Brown. Ora che della MGM è un affermato produttore, Freed pensa di ripescare quel motivo e ricamarci intorno la storia d’una diva del muto che deve adattarsi al sonoro. Strada facendo il soggetto si modifica; ma la canzone resta. E ispira a Gene Kelly il più riuscito e trascinante balletto della sua carriera […]. Spregiudicato come coreografo, geniale come regista. Ma non bisogna dimenticare che i meriti sono da dividere con Stanley Donen, come nel caso del precedente Un giorno a New York.
Piero Pruzzo, Musical americano in cento film, Le Mani, Genova 1995


Singin’ in the Rain è il fortunato esito di un team di autori che comprende una coppia in ascesa nel teatro di Broadway, quella dei librettisti-sceneggiatori Betty Comden e Adolph Green, i due autori di canzoni Nacio Herb Brown e Arthur Freed (lo stesso produttore è anche l’autore di un centinaio di canzoni usate in vari film, e qui ricorrono brani quali Fit as a Fiddle, Beautiful Girl e Broadway Melody, oltre al celeberrimo standard che intitola il film), la bravissima e seducente ballerina Cyd Charisse, che non interpreta nessun ruolo attoriale ma si limita all’esecuzione dei numeri danzati con un atteggiamento tra il seduttivo e il professionale. Le protagoniste femminili sono Debbie Reynolds nei panni di Kathy Selden, Jean Hagen nella parte di Lina Lamont e Rita Moreno in quella di Zelda Zanders. Gene Kelly è Don Lockwood, un attore del cinema muto che incontra la chorus girl Kathy Selden, e stavolta l’interpretazione di Kelly, sotto il profilo attoriale, riesce perfettamente a coniugare gli aspetti più superficiali e hollywoodiani del cinema con l’ispirazione romantica tipica del retaggio teatrale della commedia musicale. La vicenda riguarda la storia del passaggio dal cinema muto al sonoro, con tutti i problemi tecnici e recitativi connessi a questa trasformazione, ma è condotta sul filo dell’ironia e del divertimento dalla mano sagace dei due sceneggiatori, tanto da generare un consenso attorno al film destinato a protrarsi per anni, dopo le prime non irresistibili risposte del pubblico al botteghino. La regia e la coreografia sono ascritte a Stanley Donen e allo stesso Gene Kelly; di fatto, le sequenze e le scene indicano come i criteri registici seguano le invenzioni coreografiche, in un’ambientazione quasi concettuale in spazi chiusi, appunto gli studios cinematografici, che renderebbe improbabile una trasposizione teatrale di questo celebre film.
Luca Cerchiari, Storia del musical. Teatro e cinema da Offenbach alla musica pop, Bompiani, Milano 2017


Quel che è forse il più bel musical di tutti i tempi (certo uno dei più grandi e memorabili) nacque obtorto collo: Comden e Green, infatti, si misero in sciopero per alcuni giorni, poiché a loro avviso il contratto prevedeva che scrivessero un musical con canzoni completamente originali, laddove Freed desiderava che esso venisse costruito attorno ad alcune canzoni scritte una dozzina d’anni prima da Nacio Herb Brown e da lui stesso. Alla fine, un po’ come succede fra Lina e Simpson nella pellicola, un avvocato spiega a una delle due parti (in questo caso la coppia di sceneggiatori) come stanno le cose, e questa deve cedere. L’aneddoto sarebbe soltanto una curiosità e un paradosso se non fosse che quelle canzoni (soprattutto la titolare) sono il nucleo che fornisce al film il suo intero senso. […]
La pellicola non è genericamente costruita a partire dalle canzoni di Freed e Brown; al contrario, esse sono già una sorta di struttura – quantomeno implicita – che la sceneggiatura è chiamata a rendere narrazione attraverso una storia. Per questo ogni numero musicale del film investe lo spettatore in modo piuttosto diverso da quanto avviene di norma in un film musicale; per questo in Singin’ in the Rain la sensazione è che le canzoni non siano lì a riempire gradevolmente una simpatica commedia, ma siano esse stesse le vere protagoniste, le highlights dell’opera, mentre tutto il resto vi ruota attorno in modo perfetto, adeguatissimo. […]
Non soltanto Singin’ in the Rain allude dunque all’ottimismo richiesto da un difficile momento nella storia di Hollywood – sia esso, come nel film, l’avvento del sonoro, o, come metaforizzato dal film, l’avvento dell’era televisiva – ma l’intera serie di canzoni conferisce all’opera il suo senso.
[…] Una traccia di storia era già fornita agli sceneggiatori. A sentir loro, tuttavia, a quel punto essi erano pronti soltanto per tre sequenze d’apertura possibili: a) la grande ‘prima’ di un film muto a New York; b) l’intervista giornalistica della star a Hollywood che racconta una falsa storia della sua vita; c) una sequenza del film muto la cui prima si tiene a New York, nella quale la star incontra la ragazza nella città, la perde, e quindi se ne torna a Hollywood. Pare sia stato il marito della Comden a suggerire di usare tutte e tre le idee nel film, e a quel punto gli sceneggiatori decisero di tagliar fuori New York situando l’intera azione a Hollywood. Si vede dunque abbastanza bene come alcune delle canzoni abbiano fornito delle idee separate e in un primo momento alternative le une alle altre che in realtà potevano benissimo essere impiegate tutte insieme concorrendo magnificamente alla formazione della storia.
Come che sia, la buona regola teatrale di partire da un libretto per arrivare a perfezionarlo con una serie di canzoni veniva ribaltata ponendo il primo al servizio delle seconde. […] Ma è indicativo della mentalità e delle procedure hollywoodiane il fatto che brani di norma appartenenti a spettacoli teatrali di Broadway venissero riciclati – e splendidamente, quanto a questo – in pellicole che li utilizzavano in termini di crestomazia rielaborata in storia, riuscendo a volte a fare di quei film dei capolavori, e sempre comunque delle opere di deliziosa fattura ed estrema gradevolezza.
Franco La Polla, Stanley Donen/Gene Kelly, Cantando sotto la pioggia, Lindau, Torino 1997


Molte di queste canzoni erano state scritte da Freed e Brown per i primissimi film musicali, girati fra il 1929 e il 1931, durante il doloroso passaggio dal muto al sonoro, e ci venne da pensare che, piuttosto di usarle in una storia sofisticata e contemporanea, o in una farsa degli allegri anni Venti, esse sarebbero fiorite al meglio in qualcosa che avesse luogo proprio nel periodo in cui erano state scritte […]. Continuavamo a ritornare col pensiero ai drammatici sconvolgimenti di quel periodo, quando grandi carriere furono rovinate perché l’immagine che il pubblico aveva di un suo favorito veniva subitaneamente distrutta da una voce che non si adattava al suo volto leggendario. Ci ricordammo in particolare della caduta di John Gilbert, il monarca assoluto degli schermi del muto nel 1928, la cui carriera fu polverizzata da un solo film parlato, nel quale, incoraggiato dal regista, egli improvvisò la sua scena d’amore, che consisteva nella frase “Ti amo” ripetuta molte volte con intensità sempre crescente, esattamente come l’aveva fatta l’anno prima davanti a una macchina da presa senza sonoro. Il pubblico rise a crepapelle. E noi decidemmo che il nostro protagonista sarebbe stato un divo del genere. Naturalmente il trucco era di adattare la sostanza di una tragedia come questa a una commedia satirica leggera che dava risalto […] lungo il suo cammino alle canzoni di Freed e Brown.
Betty Comden e Adolph Green, cit. in Franco La Polla, Stanley Donen/Gene Kelly, Cantando sotto la pioggia, Lindau, Torino 1997