Spellbound è un grande film d’amore.
Eric Rohmer, Claude Chabrol
Ci sono cose molto belle, per esempio le sette porte che si aprono dopo il bacio e il primo incontro tra Gregory Peck e Ingrid Bergman; è chiaramente un colpo di fulmine, essa lo ama fin dal primo sguardo. […] Mi piace anche la serie di inquadrature che seguono l’arresto di Gregory Peck, l’immagine delle inferriate e molti primissimi piani di Ingrid Bergman prima che improvvisamente cominci a piangere.
François Truffaut, Il cinema secondo Hitchcock, Nuova Pratiche Editrice, Parma 1977
Quando fu concepito, il film era destinato a produrre un’autentica rivoluzione copernicana nella percezione degli spettatori: mai prima i sogni avevano avuto la stessa plastica realtà; mai prima ci si era interrogati così chiaramente sulla coscienza della responsabilità (come Johnnie in Suspicion, anche il falso Anthony Edwardes potrebbe essere veramente colpevole); ma soprattutto lo spettatore non aveva mai avuto analoga coscienza della complessità di ciò che agisce dentro di noi. Tutto questo si traduce in una chase avventurosa ed emozionante in cui la polizia incarna l’inutile sforzo della ragione per riorganizzare il mondo secondo convenzione dopo che un evento traumatico (il delitto) ne ha scosso le certezze. E Hitchcock ammette, in aperto contrasto con la propria mentalità continentale e positivista, che questo evento può dischiudere porte a cui non si era mai pensato prima. Simbolicamente, il regista lo mostra quando la forza dell’amore apre, per magia, sette porte riprese in infilata.
Giorgio Gosetti, Alfred Hitchcock, Il Castoro, Milano 1996
La fotografia di Io ti salverò presentò delle grosse difficoltà. Una vera e propria sfida per il regista e per i suoi collaboratori fu costituita da una delle ultime scene del film. Il punto di vista è quello del Dr. Murchison. Dalla sua scrivania il dottore punta una pistola contro Ingrid Bergman, che lo aveva appena informato di essere al corrente dell’identità del vero assassino del Dr. Edwardes. Vediamo in primo piano la mano minacciosa di Murchison che tiene la pistola, mentre la Bergman si trova sullo sfondo di fronte a lui (e al pubblico) in pericolo di morte. La Bergman dice a Murchison che sta bluffando, gli volta le spalle e si avvia verso la porta, mentre la mano di Murchison ruota lentamente di 180° finché il tamburo non è puntato contro di lui (fuori dalla macchina da presa, quindi gli spettatori non lo vedono); poi il dito preme il grilletto. Il Dr. Murchison si è ucciso. Nella pellicola originale del film in bianco e nero era stata inserita a questo punto una semplice forma rossa, così che il colpo di pistola era accompagnato da un’improvvisa fiammata rossa che faceva sobbalzare gli spettatori. Sfortunatamente, subito dopo l’uscita del film, i vari distributori smisero di inserire questa forma colorata e perciò andò perso l’effetto originale ideato da Hitchcock. Era difficile realizzare questa sequenza con le tecniche di allora. Mettere a fuoco la mano di Murchison con la pistola in primo piano e la Bergman sullo sfondo era ben al di là delle capacità di profondità della macchina da presa, a meno che non si illuminasse il set con una luce molto più forte del normale e non si riducesse al minimo l’apertura della camera. George Barnes, l’operatore di Hitchcock, che aveva lavorato anche in Rebecca, la prima moglie, dichiarò che riducendo troppo l’esposizione avrebbe rovinato il viso della Bergman. Barnes conosceva bene le conseguenze di una luce e di un’esposizione poco “lusinghieri” sullo sguardo di un’attrice; così la possibilità di realizzare la sequenza con gli abituali metodi fu scartata.
Si tentò di risolvere il problema con una sequenza mista: l’azione della Bergman fu girata a parte e proiettata su uno schermo davanti al quale vennero filmate la mano del dottore e la rivoltella. Ma il risultato non fu soddisfacente. Alla fine Hitchcock e Barnes incaricarono coloro che realizzavano i materiali scenici di costruire una mano gigante e una pistola quattro volte più grande del normale. Questi materiali scenici vennero posti vicino alla Bergman per poter essere messi a fuoco con lei dalla macchina da presa. La loro mole e la loro prospettiva falsata facevano apparire la mano e la pistola di dimensioni normali ma leggermente più vicine al pubblico rispetto alla Bergman. Sullo schermo appariva tutto molto semplice, e funzionava!
John Griggs, Gregory Peck, Gremese, Roma 1984
È vero che avevo già sperimentato l’utilizzo della macchina da presa in movimento in sequenze isolate di film quali Io ti salverò, Notorius, l’amante perduta e Il caso Paradine. Ma fino a Nodo alla gola non avevo mai potuto mettere in pratica l’idea che una cinepresa potesse girare un rullo completo per volta […]. Sono convinto che non vi sia Informazione non presentea come l’azione continua per sostenere il tono della recitazione degli attori, soprattutto in una storia di suspense.
Alfred Hitchcock, Hitchcock secondo Hitchcock, a cura di Sidney Gottlieb, Baldini&Castoldi, Milano 1996
In Spellbound il linguaggio della macchina da presa si sostituisce al dialogo – secondo lo stile e la concezione (legati al cinema muto) che appartiene a Hitchcock – creando una cifra visiva fortemente riconoscibile: è la contrapposizione, in profondità di campo, tra due spazi e due piani – sfondo e primo piano (o dettaglio) – presenti nella medesima inquadratura, contrapposti ed entrambi a fuoco, come il dettaglio del rasoio nella mano di Ballantyne e sullo sfondo il dott. Brulov e la cucina, oppure lo sfondo della finestra da cui si vede cadere la neve e in primo piano il profilo turbato di Ballantyne. Contrapposizione che viene caricata di forte metaforicità nell’immagine-sogno o immagine-simbolo del film, quella che riguarda e contiene l’evento traumatico del protagonista e l’enigma e il mistero del film.
Questa immagine riguarda sempre delle linee parallele scure su sfondo chiaro e si concretizza sotto varie forme, si trasforma in significanti diversi, all’insegna della ripetizione e della variazione: la prima volta sono delle strisce di una forchetta su una tovaglia, successivamente delle cuciture su una vestaglia, dei binari, le sbarre di una biglietteria, il coltello che taglia la carne, in seguito delle cuciture parallele su una coperta, le righe della schiuma su un pennello da barba, delle ombre su un lavandino e infine le tracce di uno slittino sulla neve. Sono immagini che sfruttano al massimo le possibilità del cinema e che giocano, sia sul piano fotografico che su quello della gamma cromatica che va dal bianco al nero, proprio sulle qualità e sulle caratteristiche specifiche di un cinema in bianco e nero, come era quello classico americano, a cui questo film appartiene.
Lucilla Albano, Lo schermo dei sogni. Chiavi psicoanalitiche al cinema, Marsilio, Venezia 2004
Film che è un continuo gioco delle parti, Io ti salverò (primo titolo hollywoodiano in cui il nome ‘Ingrid Bergman’ precede tutti nei titoli di testa), se non fosse per la psicoanalisi, potrebbe essere un’opera del Settecento, tra commedia e tragedia, dove ognuno è, in buona o in cattiva fede, anche altro da quel che appare: come una matrioska dove si celano via via altri ruoli con i quali, a seconda dei casi o delle convenienze, fare il proprio gioco, a partire dalla stessa dottoressa Petersen. Un gioco settecentesco – la prima sequenza parte proprio dal tavolo dove si gioca a carte – per un film fatto di porte (a cominciare dalla prima, l’entrata di ‘Green Manors’, sulla quale scorre la lunga didascalia iniziale) che si aprono su altre stanze, corridoi, nuove porte. Un thriller di gente che fugge, corre, rincorre, nelle stazioni, sui treni, sugli sci, anche nei sogni. Un thriller con venature di commedia, il cui unico elemento novecentesco è la psicoanalisi.
Nuccio Lodato, Francesca Brignoli, Ingrid Bergman. La vertigine della perfezione, Le Mani, Recco 2010