Perché faccio questo film? Ecco. Dopo Sciuscià, ho avuto per le mani trenta o quaranta copioni, se volete uno più bello dell’altro, pieni di fatti, di circostanze fortissime. Ma io cercavo una vicenda meno straordinaria, nell’apparenza, una vicende di quelle che accadono a tutti, e specialmente ai poveri, e che nessun giornale si degna di ospitare. […]
Il mio scopo è di rintracciare il drammatico nelle situazioni quotidiane, il meraviglioso nella piccola cronaca, anzi nella piccolissima cronaca, considerata dai più come materia consunta.
Che cos’è infatti il furto di una bicicletta, tutt’altro che nuova e fiammante, per giunta? A Roma ne rubano ogni giorno un bel numero e nessuno se ne occupa, giacché nel bilancio del dare e avere di una città chi volete che si occupi di una bicicletta? Eppure per molti, che non possiedono altro, che ci vanno al lavoro, che la tengono come l’unico sostegno nel vortice della vita cittadina, la perdita della bicicletta è un avvenimento importante, tragico, catastrofico. Perché pescare avventure straordinarie quando ciò che passa sotto i nostri occhi e che succede ai più sprovveduti di noi è così pieno di una reale angoscia? La letteratura ha scoperto da tempo questa dimensione moderna che puntualizza le minime cose, gli stati d’animo considerati troppo comuni. Il cinema ha nella macchina da presa il mezzo più adatto per captarla. La sua sensibilità è di questa natura, e io stesso intendo così il tanto dibattuto realismo. Il quale non può essere, a parer mio, un semplice documento.
Se il ridicolo vi è in questa storia, è il ridicolo delle contraddizioni sociali su cui la società chiude un occhio; è il ridicolo dell’incomprensione per la quale è molto difficile che la verità e il bene si facciano strada.
Alla sofferenza degli umili il mio film è dedicato.
(Vittorio De Sica, Abbiamo domandato a De Sica perché fa un film da Ladri di biciclette, “La fiera letteraria”, 6 febbraio 1948)
Questa l’essenza della vicenda: la miseria getta i poveri gli uni contro gli altri, come bestie affamate. La tesi è di una atroce evidenza. Nel mondo in cui vive l’operaio, i poveri, per sopravvivere, devono derubarsi tra loro. Esisteva dunque questo Dio dei cristiani? Dove aveva diffuso il proprio credo? […] Espressi il furore, la paura del vuoto sociale, la solitudine, l’incubo della disoccupazione. Da bambino, a Napoli, ero testimone di una scenata ricorrente in via Martiri d’Otranto. Marito e moglie, quando non avevano Informazione non presentea da mangiare, all’ora di pranzo si rompevano i piatti sul capo. Altri bisticciavano se la luce restava accesa oltre lo stretto necessario. Era triste vedere i poveri litigare per un pezzo di pane. Anch’io da piccolo sognavo altre vite possibili.
Cesare Zavattini ha così riassunto il soggetto di Ladri di biciclette. “Che cos’è una bicicletta? A Roma ci sono tante biciclette quante mosche. Ogni giorno se ne rubano decine e decine senza che i giornali neppure ne facciano cenno. Ma forse i giornali sono in grado di stabilire la gerarchia dei fatti? Nel caso di Antonio (Lamberto Maggiorani), per esempio, avrebbero forse dovuto annunciare il furto della sua bicicletta con un titolo a sei colonne, poiché essa rappresentava per lui un provvidenziale strumento di lavoro”.
(Vittorio De Sica, C’è un solo regista, Visconti, “Novella2000”, 17 dicembre 1974)
Ora, nella piccola sala di proiezione, sembra quasi scusarsi:
– Te l’ho detto, è ancora muto.
– Non importa.
E allora ti farò io il sonoro.
Non appena il primo rotolo si sgrana, la voce di De Sica abbandona quel suo accento un po’ vellutato, nel quale invano tenteresti di ritrovare un’eco partenopea, e si trasforma in una gamma di voci romanesche, asciutta per il padre, un po’ in falsetto per la madre, un po’ nasale per il bambino, i tre eroi della sua vicenda.
– Riassumi, non ti stancare.
– E che vuoi? So’ attore.
Vedevo così il suo nuovissimo film, ancora maculato dai fregi violacei della matita del montaggio, e recitato da questo eccezionale ‘doppiatore’ d’occasione, che caletta, alle labbra di quelle ombre, persino la sillaba o l’interiezione con tempi e toni infallibili. È un film schietto, semplice, umano, e ‘nostro’ come pochi, forse come nessuno. È uno scorcio di vita romana, dei quartieri popolari, in questi anni difficili. La disoccupazione è l’incubo di molti, di troppi; e quando questo povero Ricci Antonio fu Giuseppe, a un ufficio rionale di collocamento, si sente dire che il posto c’è, quasi non ci crede. Farà l’attacchino, gli daranno una bella tuta, un bel berretto; lui, però, dovrà avere la bicicletta. “O che non ce l’hai?” “Ce l’ho, sì, ce l’ho!”. E se ne va con un volto atterrito. La bicicletta l’aveva, e l’ha impegnata. A casa Marì, la moglietta, lo conforta, e poi energica decide: si potrà dormire anche senza lenzuola. Impegneremo le lenzuola per disimpegnare la bicicletta. E l’attesa, la trepidazione, in quel Monte di Pietà, tutto un cimitero di spente speranze e di dolorose rinunce: tutto un piccolo mondo delineato in un racconto sempre sobrio e commosso, con al centro questo ‘regazzino’ di sette anni, questo piccolo Bruno che, con due occhi sgranati, tristi e fidenti, segue il padre negli inizi della grande avventura che darà ‘da magnà’ ogni giorno; quel diritto al lavoro e alla vita potrà persino apparire come un dono meraviglioso, a chi ha fin troppo disperato d’averlo.
– Ti piace?
– Molto.
– Je vói già bene, a ‘sta gente?
Mi guarda proteso:
– Perché tutto è lì.
(Mario Gromo, “La Stampa”, 17 novembre 1948)