“L’idea affondava le radici in una delle storie che Pupi Avati bambino sentiva evocare davanti al fuoco del camino che gettava frammenti di luce sugli ambienti oscuri delle case di campagna percorse da scricchiolii e fantasmi. […] In una guida dedicata al cinema di genere, La casa dalle finestre che ridono è un corpo estraneo difficilmente catalogabile per quel suo galleggiare tra giallo e noir con deviazioni verso l’horror. I codici che stabiliscono l’appartenenza a questi generi sono tutti ben schierati. Ombre, persiane che si chiudono, porte cigolanti, voci rantolanti che proferiscono terribili minacce al telefono, gatti che strillano, riprese in soggettiva. […] Se il giallo italiano è sostanzialmente metropolitano, qui coraggiosamente – e probabilmente grazie alla totale indipendenza economica – si viene catapultati nel ventre profondo della provincia più dimenticata, provocando una sensazione di spaesamento e isolamento (accentuata dall’ambientazione nel passato, gli anni Cinquanta del Novecento). […] Il delta del Po, Comacchio, le campagne depresse al confine tra bolognese e ferrarese: vuoto e assenza di confini, dove il Po non è fiume maestoso ma un sistema venoso creatore di acquitrini malsani. Nella sua vastità il paesaggio riesce a essere claustrofobico, complice una luce malata che avvolge la scena”.
Andrea Maioli, Pupi Avati. Sogni Incubi Visioni, Edizioni Cineteca di Bologna, 2019