Serata promossa da Acantho
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Quando [Andreotti] mi disse “non faccia un film su di me, non ho fatto nulla di importante, non ne vale la pena”, io penso che fosse sincero. L’idea che aveva di sé era di uno che tutto sommato non conduceva una vita così interessante. Perché per lui era del tutto normale essere un uomo di potere, lo è stato da subito, da quando aveva vent’anni, quindi quello che per me appariva misterioso e segno di un talento unico per lui era molto banale e non capiva perché andasse raccontato. Andreotti da questo punto di vista era oltre il cinismo. Aveva visto talmente tante cose e conosciuto talmente tante persone che le sue esperienze di vita si sono messe tutte su una specie di piano orizzontale, per cui un omicidio non era dissimile da un pranzo.
Paolo Sorrentino
Il Divo [...] riesce nella sfida di ritrarre un personaggio di cui tutto è stato già detto procurando l’impressione che tutto sia inedito, originale. Frutto di un calibrato mix tra documento e invenzione. Dove è l’invenzione, la libera utilizzazione del materiale o la sua manipolazione creativa a imprimere forza al film. Le persone più vicine a Giulio Andreotti, i capi della sua corrente, esprimono un alone sinistro e cupo che è conseguenza dell’interpretazione artistica ma non per questo perde in attendibilità.
Il colloquio tra Andreotti ed Eugenio Scalfari è inventato, ma come rende l’idea quell’appellarsi del senatore alla complessità delle cose, in risposta alle domande incalzanti del giornalista, e la sua esortazione a evitare le scorciatoie semplicistiche nel condannarlo. Non sarà vero in senso stretto ma quanta verità c’è nel passaggio in cui il presidente confessa il dolore cui lo condannano il pensiero di Moro e la domanda “perché le BR non hanno preso me?”. E poi quello in cui egli assume la responsabilità di una pratica del Male che è servita a preservare, difendere, promuovere il Bene.
Un film complesso, discutibile come qualsiasi opera che tocca argomenti tanto sensibili, dove la figura più nota di tutta la storia repubblicana, milioni di volte caricaturizzata per le sue inconfondibili caratteristiche fisiche, ci appare per la prima volta nella sua enigmatica dimensione umana e nella sua statura di moderno Nosferatu. Le forzature, le invenzioni, non mancano di restituirci un ritratto denso, realistico e indimenticabile. Il massimo di deformante soggettività produce il massimo di documento. Come fu per La dolce vita.
Roberto Nepoti