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La mia classe di Daniele Gaglianone è un’opera civile, politica e felicemente sbilenca, irrisolta, eppure audace, coraggiosa, spudorata nella propria voglia di sbattere la testa contro il muro di tutto quanto la società civile nasconde sotto il tappeto della falsa coscienza, delle buone maniere, dell’impegno di facciata.
Realizzato in due settimane di riprese, è un film d’urgenza rara. Come un demo punk di una band che incide tutto in diretta e in una sola session. Volume a palla, cuore gonfio e tante cose da dire. […] Per dirla con formule note, è un docu-fiction, ossia un film di finzione che accoglie nel proprio tessuto elementi di cinema del reale. Valerio Mastandrea è un maestro che insegna l’italiano a una classe di studenti extra-comunitari rendendosi conto della propria lotta vana. Gli studenti s’aggrappano a lui come a uno dei pochi barlumi di umanità di un paese che, invece, nonostante i buoni propositi, non ne vuol sapere niente di loro.
Il momento della verità giunge sotto forma di un permesso di soggiorno non rinnovato. La troupe e il cast si trovano di fronte a una scelta vitale: continuare o abbandonare tutto? Ed è in questo snodo che il film di Gaglianone tocca con chirurgica precisione il nervo scoperto del cosiddetto cinema d’impegno civile (e si vedono dei soldi, dettaglio non secondario…). Si fa cinema dalla parte della legge o si resta dalla parte della giustizia? Assumendo in pieno le responsabilità del limite del suo fare, Gaglianone esplode il fare nel limite, accogliendolo come perimetro scomodissimo del suo agire. Quasi mai il cinema civile italiano è giunto a ragionare a tale prossimità dei limiti dei propri propositi. Gaglianone non si fa illusioni, e mostra, letteralmente, le contraddizioni di chi interviene con il cinema nel reale. Gli scambi fra il regista e Mastandrea (un miracolo di economia del segno, quest’uomo) sono esemplari nel mettere in scena la disperazione di chi è costretto a notare il mare che separa l’abisso delle intenzioni dall’efficacia del proprio agire.
Giona A. Nazzaro
Quando Valerio mi ha detto guardandomi negli occhi: “Gaglia, nel film ci devi essere anche tu”, l’ho mandato a quel paese. Ma poi ho capito che aveva ragione, che non potevo dire a un altro che cosa il regista del film doveva dire e fare, dovevo letteralmente metterci la faccia. Fare questo film è stata un’esperienza unica: tutti i giorni ripetevo sul set che stavamo rischiando grosso ma per qualcosa che ne valeva la pena, perché il film o funzionava o era inguardabile. Non c’erano vie di mezzo. Mi ha accompagnato e dato coraggio, la riflessione di un poeta e scrittore russo del Novecento, Daniil Charms: le uniche poesie che vale la pena scrivere sono quelle con dei versi che se si prendono e si tirano contro una finestra, il vetro si deve rompere.
Daniele Gaglianone
precede (ore 20)
Festa delle nuove cittadinanze