Uno dei prodotti più belli nella storia della televisione italiana, sceneggiato in cinque puntate poi ridotte in una versione cinematografica. L’adattamento ‘libertario’ del classico di Collodi compiuto insieme a Suso Cecchi d’Amico è da manuale di scrittura: Pinocchio è da subito un bambino, e torna periodicamente burattino, come se le due anime continuassero a convivere; la fata turchina è in realtà la moglie morta di Geppetto, il quale diventa un genitore assai più ‘materno’.
Come se avesse imparato la lezione della Finestra sul Luna Park, viene da dire: e lo sceneggiato è anche un paternal melodrama, il dramma di un padre, oltre a uno dei più bei ritratti di bambini della storia del cinema. Ma il film è anche profondamente fedele a Collodi nell’essere una ‘fiaba della fame’, in un mondo contadino gretto ma anche buffo, dove la magia è un’appendice quasi naturale della vita quotidiana e si sognano le Americhe. Il fantastico germoglia da un realismo minuzioso, da un lavoro ipnotico sui luoghi reali (sbalorditive le scenografie di Piero Gherardi), e ripensandoci offre il primo di una serie di epicedi del mondo contadino che la Rai produrrà negli anni successivi (Padre padrone, L’albero degli zoccoli, Cristo si è fermato a Eboli). Le bestie sono a volte uomini, come la Lumaca o il Gatto e la Volpe (viene da dire: come se venissero visualizzati certi soprannomi paesani), il teatro dei burattini compare nella prima scena e dà il tono a tutta la storia.
Nino Manfredi mette al servizio del film il suo repertorio di movenze patetiche e dà una delle proprie migliori interpretazioni, Fiorenzo Carpi firma una partitura indimenticabile. L’interprete di Lucignolo, Domenico Santoro, era uno degli intervistati di I bambini e noi. Il set del film è stato ricostruito di recente in alcune bellissime scene di Il tempo che ci vuole di Francesca Comencini.
ingresso libero