[…] Per i cineasti, Caligari e una delle più notevoli manifestazioni cinegrafiche. Il ritmo! Povera piccola parola che utilizziamo così spesso, troppo spesso, e che gli artigiani del nostro cinema comprendono così poco spesso, troppo poco spesso. Il ritmo, più potente dell’orchestra e dello scintillio del bianco e nero, regola i gesti, le figure, le proporzioni delle scene, la durata delle inquadrature, il metraggio stesso della pellicola, crea il movimento necessario. Non farò esempi, sarebbero quasi esclusivamente svedesi, americani, tedeschi.
Parliamo di Caligari. Il suo ritmo determina il film. Prima lento, volutamente macchinoso, cerca di snervare l’attenzione. Poi, quando la giostra comincia a girare, l’andatura sussulta, accelera, sfreccia via, e non ci da tregua che alla parola fine, pungente come uno schiaffo. È eccellente.
Tutti gli interpreti prendono parte a questa sinfonia visuale. Ma Werner Krauss è decisamente impareggiabile poiché ogni suo sguardo, ogni minimo gesto sono altrettante note sulle dita di un invisibile compositore, padrone di se stesso – e di tutti noi.

Louis Delluc, “Cinéa” n. 44, 10 marzo 1922, ora in Écrits cinématographiques. Le Cinéma et les Cinéastes, Cinématheque française, Paris 1985

I critici che hanno accolto entusiasticamente l’opera primaria di Pirandello Così è (se vi pare) hanno per lo più taciuto all’apparizione di II gabinetto del dottor Caligari, che illustra, con uno spirito decisamente più elevato e più grave, lo stesso aspetto dell’angoscia umana. Malgrado gli anni trascorsi dalla sua prima rappresentazione, il film non è invecchiato, grazie a uno scenario che lo manterrà ancora a lungo sul piano dell’attualità poetica. Qui, almeno, nessun scetticismo, nessuno spirito da commesso viaggiatore un po’ brillo, ma il regno del mistero e la sua sovranità riconosciuta. L’azione drammatica del film è una delle più intense che io conosca, una di quelle in cui l’emozione consegue maggiormente il terrore. La stessa perfezione dell’intrigo, la veridicità di questa storia di folli rendono tangibile la tragedia morale della follia, di cui “conscio” e “inconscio” sono i protagonisti. Dal punto di vista della tecnica, si è sorpresi di aver dovuto difendere le scenografie e la recitazione degli attori, tanto esse appaiono legittime. Meno legittimo è il loro impiego nei film successivi a Caligari, che, utilizzando a sproposito la recitazione lenta e la deformazione dell’universo, sfociarono in una nuova banalità di cui L’Inhumaine è la più deplorevole e grottesca manifestazione. Bisogna parimenti sottolineare l’eccellenza delle didascalie nel film tedesco. Non solo esse non rallentano l’azione, ma anche la accelerano in modo emozionante, rafforzandone il mistero senza artifici puerili.

Robert Desnos, in “Journal Littéraire”, 31 gennaio 1925; ora in Pier Giorgio Tone, Caligari, la logica del delirio, Le Mani, Recco-Genova 2007




Wiene ha cercato di inserire il materiale organico nell’universo tecnico e costruttivo che i suoi collaboratori gli fornivano. Egli non poteva presumere di mascherare le forme organiche dell’interprete, che agiscono quasi come parti formali dell’architettura. In tal modo si sovrappongono due mondi, che sono costruiti secondo leggi fondamentali diverse: l’organico si mescola con la forma matematica, un’unificazione pare impossibile. La direzione artistica di Wiene sfuma le asprezze della dicotomia; egli trova passaggi pittorici e mantiene l’equilibrio con il contenuto emotivo delle scene.
I pittori danno forma a questo contenuto emotivo. Gli effetti scenografici dell’espressionismo sono sentiti con maggiore sicurezza. L’architettura sembra innalzarsi da una concezione creativa, la luce è dipinta, ornamenti misteriosi mettono in rilievo il carattere, come applicazioni di corpi estranei su quadri. Le strade si incurvano, cadono apparentemente l’una sull’altra; la tetraggine, la strettezza, il disgregarsi della piccola città sono centrati in pieno. Gli alberi sono un fantastico groviglio in tensione, spoglio, spettrale, che fa a pezzi il quadro in modo agghiacciante. Piccoli fabbricati riempiono lo spazio come corpi estranei, scale oblique gemono sotto l’uso, energie animano le porte, che sono più propriamente cave, voraci aperture. Il carattere primordiale di tutti gli strumenti e di tutti gli espedienti è ridestato: eternamente raffigurato in forme matematiche.
Ma l’essenziale contenuto emotivo di queste superfici strapiombanti e di queste linee eccitanti scaturisce dalla luce, che divide artisticamente il chiaro e lo scuro, e che, dipintavi sopra, muove le superfici e ne accentua l’inclinazione. Uno degli architetti, Warm, ha spiegato: “L’immagine filmica deve diventare grafica”. Questa tendenza conferisce all’architettura la sua intrinseca animazione.
Caligari
trovò uno stile efficace per l’espressionismo cinematografico. E così questo spettro tenebroso cominciò intorno alla terra una corsa che arrecò ovunque stupore, conquista di nuove possibilità e successo.

Rudolf Kurtz, L’espressionismo e il film (1926), Longanesi, Milano 1981




Per me questo film non è una premonizione di Hitler. È un’eco della svolta copernicana che a opera di Freud sconvolse l’autoconsapevolezza dell’individuo; combinata con un medium che come nessun altro è fatto per provare le scoperte freudiane. Riproduzione, ripetizione è già la piccola morte. Non presenza: solo rappresentazione. Il cinema guarda la morte al lavoro, dice Godard.
Il cinema come disegno animato è una potenzialità del cinema che viene tanto poco realizzata per il fatto che i registi raramente sono pittori o architetti e che il décor è ancora e sempre solo un veicolo. Che Caligari malgrado la sua rivoluzionaria concezione scenografica non abbia innescato una rivoluzione cinematografica va probabilmente ascritto alla circostanza che il film venne concepito nello spirito di una pittura segnata dall’irruzione di intenzionalità letterarie nelle arti figurative. I disegni animati di Warm prendono alla lettera l’espressionismo. Quando nei quadri espressionisti percepiamo del movimento, lo troviamo nella cornice, nel movimento raffrenato che minaccia di far esplodere la cornice stessa, nella tensione fra quiete e movimento. Animare una tale pittura significa minarla alla base. Come la fotografia rappresentò un superamento del naturalismo, in Caligari la pittura in movimento attraverso l’immagine in movimento viene condotta ad absurdum.
Caligari è
un caso esemplare nella storia del cinema tedesco, un cominciamento subito atrofizzato. […] Nel Caligari del 1920 non erano rivoluzionari né la sceneggiatura né la scenografia. Rivoluzionaria era la funzione del décor nel giovane medium. Poiché deviava dalla norma e tentava di modificarla.

Frieda Grafe
, Dottor Caligari versus Dottor Kracauer ovvero la salvezza della realtà estetica (1970), in Luce negli occhi colori nella mente: scritti di cinema, 1961-2000, a cura di Mariann Lewinsky e Enno Patalas, Cineteca di Bologna/Le Mani, Bologna-Genova 2002




Questo film-manifesto dell’espressionismo è stato probabilmente troppo studiato (e spesso troppo criticato) come manifesto e non abbastanza come film. […] In quanto film in sé, si tratta di un’opera moderna, sorprendente, convincente e quasi inattaccabile.
[…] La sceneggiatura, al di là delle scelte estetiche e plastiche con le quali viene messa in scena, possiede un’enorme forza intrinseca. Procede per salti, per rivelazioni vertiginose fino all’ultima immagine. Ricordiamo le due più memorabili: la scoperta – all’interno del racconto del folle – che Caligari non è solo imbonitore e assassino ma anche psichiatra; la scoperta, dopo la conclusione del racconto del folle, che Caligari è lo psichiatra che ha in cura il narratore. L’assoluta coerenza di questo incubo apre orizzonti imprevedibili sulla follia del narratore e sulla follia in generale. Da una parte – la parte che si esprime sul piano scenografico – è deformante, delirante, allucinato. Dall’altra – quella che si esprime sul piano narrativo – è iper-logico, convincente e affascinante. Il merito fondamentale di Caligari è la convergenza tra una visione plastica angosciosa e fantasmatica della follia e una resa drammatica della stessa follia strutturata in modo perfetto e implacabile. Su questo piano, il film resta un modello. […] Lo scioglimento narrativo sopraggiunge così tardi ed è così rapido da accrescere le nostre perplessità piuttosto che dissipare i nostri dubbi, tanto più che le ultime inquadrature del film (quelle successive al racconto del pazzo) sono ancora stilisticamente espressioniste. Il folle (la follia) forse ha ragione. È questo l’ultimo messaggio di un film nel quale l’inquietudine e il dubbio rappresentano l’essenza fondamentale.

Jacques Lourcelles, Dictionnaire du cinéma. Les Films, Robert Laffont, Paris 1992




Per quanto riguarda l’Italia, film come Nosferatu, eine Symphonie des Grauens, Sylvester, Schatten, Scherben, Hintertreppe, Genuine, Von Morgens bis Mitternachts, Die Verrufenen, Torgus, Januskopf, Ueberfall, Die Büchse der Pandora […], non sono mai stati importati, e film come Das Cabinet des Dr. Caligari, Der müde Tod o Die freudlose Gasse sono arrivati con almeno cinque anni di ritardo, con titoli alterati, Dott. Calligari, Il signore delle tenebre e L’ammaliatrice, malamente tagliuzzati e in più parti rimanipolati ed in pratica hanno circolato per modo di dire. Si è imparato a conoscerli venti, trenta, addirittura cinquanta anni dopo, grazie alle proiezioni dei cine-club o alle retrospettive veneziane all’epoca di Chiarini e poi alle più articolate manifestazioni delle Giornate di Pordenone o al Cinema Ritrovato di Bologna.
[…] Raramente capita oggi di rivedere qualcuno di questi film: forse una retrospettiva che provasse a riconsiderare questi aspetti trascurati riserverebbe molte sorprese; probabilmente coloro che sono abituati a pensare che il cinema tedesco da Caligari a Hitler è solo una lunga e tetra processione di ombre demoniache, si incamminerebbe in un percorso alternativo, dove Caligari ha perso il gabinetto, raddoppiato le elle del suo cognome, che peraltro risulta più volte citato con la esse finale, forse per un inconscio riferimento ad un calciatore molto celebre di quei tempi, e via via si giungerebbe ad un Angelo azzurro, dove Lola Lola invece di emettere con la profonda voce di Marlene il primo vagito del cinema sonoro tedesco, venne completamente ammutolita nell’edizione italiana […].

Vittorio Martinelli, Dal dott. Calligari a Lola-Lola: il cinema tedesco degli anni Venti e la critica italiana, Cineteca del Friuli, Gemona 2001