Maestro della risata, Moretti sembra volerci ricordare che con certe cose non si scherza: la malattia, ma anche l’impegno nel vivere, la fedeltà a se stessi, la capacità di indignazione. E tutto ciò il film lo comunica per spiritose allusioni, come mettendoci davanti delle comic stripes. Sicché da qui in avanti il regista potrebbe limitarsi a continuare questa sua storia potenzialmente infinita, offrendoci altri diari: i numeri due, tre, quattro… Potrebbero diventare tanti quanti le strisce di Charlie Brown. Autodefinendosi con ironia “uno splendido quarantenne”, sta a vedere che Moretti ha colto nel segno. In ogni caso ha realizzato il sogno di “ballare e non veder ballare”: il suo modo di comportarsi sul terremotato palcoscenico del cinema rivela infatti un’eleganza interiore, uno snobismo e un senso del ritmo degni di Fred Astaire.

(Tullio Kezich, Ecce Nanni: ironico, amaro e un po’ snob, “Corriere della Sera”, 13 novembre 1993)




Tre episodi. Tre stili e tre temperature di racconto. Tre sguardi uniti dalla calligrafia minuta e vagamente infantile di Nanni Moretti che si sgrana sotto i nostri occhi sulle pagine del suo diario. Sorretto da uno sguardo limpido e sognante. Una fotografia, molto ‘fisica’ e sapiente, è di Giuseppe Lanci, In Vespa è quasi un musical in forma di sopralluoghi. […] È anche una visita guidata a fantasmi e idiosincrasie di vecchio ceppo morettiano: la necessità di essere minoranza, i luoghi comuni nascosti nel linguaggio quotidiano, il disamore annidato in scelte a prima vista banali come andare a vivere a Casalpalocco (“trent’anni fa, quando Roma era bellissima!”). Ma accanto alle invettive viene a galla un Moretti inedito e addolcito, il Moretti che va per attici con la fidanzata (vera, anche se di spalle) o si fa dare del matto da una famosa attrice americana incontrata per strada. Anche se poi il giro in Vespa si chiude sul luogo dove fu ucciso Pasolini, omaggio muto e asciutto a una figura sempre lontana e sempre più vicina. Nel secondo episodio, girato alle Eolie, parla di Ulisse ed è vero che tutto Caro diario è una piccola Odissea del nostro presente, un viaggio fra realtà e iperbole dove ogni luogo corrisponde a uno stato d’animo, ogni incontro condensa un’esperienza o un sentimento. Più che all‘Odissea però si pensa ai Viaggi di Gulliver, perché fra una sponda e l’altra Moretti e l’amico Renato Carpentieri incontrano tipi strambi, mutanti, campioni di un’umanità deviata, sofferente e quel che è peggio ignara.
[…] La comunicazione è l’ultima utopia. Anche i medici del terzo episodio “sanno parlare ma non ascoltare” tanto che Moretti vaga per mesi fra istituti e specialisti prima di scoprire, dopo essere stato dato per moribondo, che non è affetto da misteriosi mali psicosomatici ma da un tumore benigno al sistema linfatico. L’episodio, autentico, è raccontato nei particolari. Come e più degli altri, dimostra un’ironia, una coerenza, un distacco ammirevoli. Caro diario, oggi non ho visto un bel film, ho visto un film necessario. Non ce ne sono molti.

(Fabio Ferzetti, Tre viaggi, una sola odissea, “Il Messaggero”, 12 novembre 1993)




Prima che un simile equivoco possa prendere davvero piede, è necessario chiarire due cose molto importanti. Prima cosa: anche se Nanni Moretti vi interpreta direttamente se stesso, senza più filtri o alter ego, col proprio nome e cognome, la propria Vespa, la propria calligrafia e la propria malattia, Caro diario è di gran lunga il suo film nel quale parla meno di sé. Seconda cosa: il film è un grandissimo omaggio a una pratica che potremmo definire ‘del sopralluogo’, che ha avuto illustri maestri nella cultura del nostro paese – da Zavattini a Cassola, a Parise – ma non è mai stata definitivamente assorbita dalla tradizione, e nemmeno da tutti quei giornalisti abituati a lavorare solo per telefono. Invece in Caro diario Nanni Moretti ‘si reca’ nei posti con l’umiltà di un geometra, e li ispeziona, e quando gli chiedono ragione della sua curiosità tira fuori proprio questa parola, parla lui stesso di “sopralluogo” per un film. Ecco come va intesa la sua presenza nei panni di se stesso, o la sua voce che compone le pagine del diario: non è desiderio di parlare più intimamente di sé, non è ansia di accorciare ulteriormente le distanze con il pubblico, è una mera necessità logistica, perché laddove c’è un sopralluogo deve esserci qualcuno che lo compie, e deve esserci una lingua per stilare il rapporto.

(Sandro Veronesi, Il Diario pubblico di Nanni Moretti, “l’Unità”, 11 novembre 1993)




Ma in Caro diario la confidenza nei propri mezzi e nel peso specifico del personaggio Moretti sedimentata attraverso gli anni lo porta a uno smontaggio della forma tradizionale. Non più la registrazione ‘di colore’ di un mondo e di un’atmosfera (vedi Io sono un autarchico o Ecce bombo), ma un piccolo saggio narrativo. Non più la favola morale nobilmente narcisistica in cui tutto – sdegno, idiosincrasie, passioni – è filtrato attraverso l’alter ego, il ‘Doppelgaenger’ morettiano Michele Apicella. Ma ‘la cosa in sé’: Nanni Moretti, l’uomo (e non il personaggio) che scrive “caro diario” e mette sullo schermo e sotto gli occhi di tutti non solo la sua passione per la danza, il suo orrore per l’apostasia dilagante nei compagni della sinistra giovanile, il suo disagio per l’asservimento degli adulti davanti ai piccoli mostri che hanno generato, la sua ricerca di una coerente soluzione di vita. Ma seppur con molto pudore e con un umorismo che nasce dall’assurdità delle cose, la sua malattia, il suo lungo corpo magro, la scoperta della semplicità delle cose necessarie per vivere: come il bicchier d’acqua che uscito dalla malattia, si beve ogni mattino prima del latte macchiato.

(Irene Bignardi, Moretti come Candide, “La Repubblica”, 13 novembre 1993)




Caro Caro diario, ti scrivo questa recensione prima di tutto per dirti fino a che punto le notizie che ci hai dato ieri sul tuo regista, Nanni Moretti, ci hanno regalato una gioia in cui non speravamo più. […] Credo che in italiano il termine “caro” racchiuda lo stesso doppio senso del francese e dovresti ringraziare Nanni per averti ‘battezzato’ così: raramente i film hanno un titolo tanto azzeccato, capace di esprimere quanto tu sia prezioso per lui e, al tempo stesso, quanto gli sia costato girarti. […]
Non vorrei coprirti troppo di complimenti, ma faccio fatica a resistere: da qualsiasi parte ti si guardi, risulti incontestabilmente perfetto. Il tuo inizio è di quelli difficili da dimenticare. L’andamento infinito e sontuoso delle tue carrellate su una Roma ignorata, l’indugiare sul rumore della Vespa, la bruciante intelligenza dei commenti della guida Nanni a proposito di questa città in cui è nato (“Sento un odore di tute indossate al posto dei vestiti, di videocassette”), lo humour sconvolgente dell’incredibile sequenza in cui maledice e tortura il critico cinematografico, la delicatezza infinita dell’omaggio reso a Pasolini: tutto ciò resta scolpito nei nostri cuori. D’un colpo solo il tuo Moretti ha messo le cose in chiaro: con lui tutto è cinema ed è per questo che la sua fusione biologica con il film ci sembra tanto giusta, tanto entusiasta. Come tanti altri mi sono fatto un sacco di risate con il tuo secondo capitolo Isole, girato alle Eolie. Il lato didattico di Moretti è irresistibile. […]
La parte più difficile da affrontare, naturalmente, è l’ultimo episodio, tanto più che il tuo Nanni inizia con un avvertimento agghiacciante: “Niente di questo capitolo è stato inventato” e come prova ci fornisce le insensate ricette prescrittegli da una schiera di dermatologi. La sgranatura un po’ sfocata della scena dell’ultima seduta di chemioterapia aveva già alzato la tensione. L’evoluzione della sua malattia, il prurito, il dimagramento e l’eccesso di sudorazione fanno da tragico contrappeso al tuo consueto buonumore anche se – qui come in tanti altri momenti – fai in modo di non separarti mai da quella folle ironia che ti colloca, insieme a lui, al di sopra del patetismo e delle lacrime facili. Non saprò mai trovare le parole giuste per esprimere l’ammirazione che provo per la straordinaria lucidità che, entrambi, dimostrate: in questi casi le parole non servono.

(Olivier Séguret, Cher “Cher Journal”, “Libération”, 20 maggio 1994)




Moretti si sposta in un continuo movimento, senza una destinazione precisa, tra le strade di Roma. Una Roma che non è quella del Pantheon, delle rovine e del Colosseo. Lasciamo questi clichés ai cineasti ufficiali.
Caro diario
è un film sull’Italia, e a fortiori su Roma, questa capitale europea che rifiuta il progresso e si svuota il mese di agosto. Moretti la riprende, a momenti sparendo di fronte a questa città tra le due guerre e del dopoguerra, frutto di ricostruzioni e di piani edilizi, che a volte la imbruttiscono. […] Caro diario è un film sulla solitudine: essa è fonte di malinconia, ma anche di energia. Moretti si trova spesso da solo nell’inquadratura, isolato. A volte, nell’angoscia di un pomeriggio di depressione al cinema, ma anche in piaceri che possono solo essere individuali. […] Caro diario oscilla senza sosta tra leggerezza e gravità. L’opera più generosa, più accessibile di Moretti, all’opposto di quell’oggetto grezzo, notevole e magistrale che era Palombella rossa. Moretti sostituisce alla rabbia perpetua di Michele l’immagine di un cineasta in pace con se stesso, non potendo esserlo con il mondo.

(Nicolas Saada, “Cahiers du Cinéma”, n. 479-480, maggio 1994)




Se da una parte non si fa appello a Rossellini nell’episodio stromboliano di Caro diario, dall’altra mi sembra che il film recuperi il terreno perso essendo profondamente rosselliniano nel modo in cui vengono narrati i primi due capitoli. In Vespa è, per larga parte, costituito da momenti di pura contemplazione del mondo, attraverso quelle lenti, soffici, fluide carrellate in avanti o indietro che ci trascinano, in modo quasi ipnotico, nel sentiero di Nanni (bruciando bellamente, come niente fosse, uno stop e imboccando una strada a senso unico), con quelle panoramiche o quelle carrellate laterali, magnificamente montate, per di più, sulle facciate di Roma […].
In tutte quelle inquadrature, in tutte quelle strade svuotate dal traffico […], raramente l’aura del cinema ha respirato con una simile pienezza. […] Caro diario è certamente una commedia e si ride molto, ma è soprattutto un grande film malinconico […], che non rappresenta una rottura rispetto ai precedenti film di Moretti: è un film di transizione, una rinascita forzata (attraverso la malattia), ma in modo dolce. Moretti non dice, in modo radicale, come fa Kafka: “Nella lotta tra te e il mondo, scegli il mondo”, non si sceglie nemmeno la riconciliazione totale, come Renoir con il suo passaggio attraverso l’India e ciò che ne segue: Il fiume. Si situa tra un momento e un altro, tra una cosa e l’altra, tra un’isola e un’altra (“il solo momento in cui mi sento felice”), tra il mondo, che ha rischiato veramente di lasciare, e, assieme ad esso, se stesso. Egli è tra, e basta.

(Alain Philippon, Stromboli, c’est pas fini, “Cahiers du Cinéma”, n. 481, giugno 1994)

 




I testi dell’Antologia critica sono tratti da Federica Villa, Caro diario, Lindau, 2007, e da Ecce Nanni!!! Il cinema autarchico di Nanni Moretti, a cura di Valentina Cordelli e Riccardo Costantini, Centro Espressioni Cinematografiche, 2006