Ho voluto chiamarlo Caro diario perché fosse subito chiaro allo spettatore che si trattava di un film molto personale, intimo, privato, anche se – non è una battuta, a volte i registi capiscono qualcosa in più sul loro lavoro attraverso il contatto con gli spettatori – mi è stato ‘spiegato’ che si trattava di un film in cui, benché dessi l’impressione di parlare maggiormente di me, parlavo in realtà di più degli altri rispetto al passato. Non saprei… Comunque, in questo film, non mi nascondo più dietro il personaggio di Michele Apicella.
Quando ho cominciato a fare cinema scrivevo, dirigevo e recitavo allo stesso tempo. Mi è venuto naturale stare non solo dietro, ma anche davanti la cinepresa. Pian piano mi sono divertito a costruire un personaggio affibbiandogli le mie ossessioni: l’attenzione per le scarpe, la precisione nel linguaggio, una certa rissosità, la passione per i dolci e per lo sport più praticato che visto. In Caro Diario sono precipitato nella prima persona, non c’è più Michele, ma Nanni.

(Nanni Moretti)




Negli studi sul cinema l’uso del termine autobiografico è abbastanza generico. Si parla infatti di autobiografia ogni qualvolta entrano in gioco (o meglio compaiono nel film) elementi narrativi riferibili alla biografia del regista. In realtà il cinema, per sua natura, difficilmente permette la strutturazione di un’autobiografia quale la si intende in ambito letterario […] Sarà dunque più opportuno utilizzare in ambito cinematografico la definizione di diario, facendo riferimento all’analogo genere letterario e adattando al cinema i suoi elementi caratterizzanti. Come è noto, l’uso delle immagini costringe al presente e già questo può essere considerato un equivalente del diario. […]
L’autore italiano più legato all’autobiografia è sicuramente Nanni Moretti. Sin dalle prime opere Moretti, che dei propri film è anche interprete, mette in scena se stesso e le proprie esperienze di vita. […] Con Caro diario il regista abbandona lo pseudonimo che ha accompagnato i suoi diversi personaggi e diventa Nanni Moretti anche sullo schermo. Già il titolo del film esplicita la struttura scelta: se ciò non bastasse il regista ricorre alla scrittura e alla allusione all’analogo genere letterario. Il primo episodio (In Vespa) inizia con un particolare della mano di Moretti che scrive, con la sua calligrafia: “Caro diario, c’è una cosa che mi piace fare più di tutte!”. Seguono le immagini dell’attore-regista in Vespa su una strada alberata di Roma.
In Caro diario si realizza una triplice identificazione, tipica del diario: l’autore è il narratore e anche il personaggio principale. Ma non si tratta solo di questo: Moretti trasferisce nelle immagini, che hanno davvero la casualità di un diario, brandelli della sua vita privata.

(Cristina Bragaglia, Autobiografie e cari diari: Nanni Moretti e gli altri, in “Annuali di Italianistica”, vol. 17, 1999)




“Voi gridavate cose orrende e violentissime, e voi siete imbruttiti. Io gridavo cose giuste e ora sono uno splendido quarantenne!”, rimbecca Moretti riprendendo il giro in Vespa con colonna musicale di Leonard Cohen.
Comincia così, con questa dichiarazione estetica e ideologica molto decisa, il settimo lungometraggio di Nanni Moretti, filmato in momenti diversi, e dove l’autore racconta sé stesso in prima persona, senza lo schermo dell’alter ego Michele Apicella (o don Giulio). Ed è curioso che proprio Caro diario, che è esclusivamente autobiografico (e molto intimo), sia il film sul quale incidono meno le idiosincrasie, gli scatti, le ossessioni del personaggio Nanni Moretti.
Tutti questi elementi ci sono, naturalmente: dalla fobia per il cinema italiano e per i film dalla violenza gratuita (dove maltratta Henry, pioggia di sangue di John McNaughton, che invece merita un occhio più calibrato, fosse solo per il suo taglio ‘entomologico’) all’insofferenza per le intemperanze linguistiche (e perciò teoriche) di una certa critica, dal fastidio per le mode culturali anni Ottanta (radical chic, sinistresi, ecologico-misticheggianti) allo stupore per la stupidità della gente, alla rabbia per l’arroganza un po’ viscida delle categorie dei privilegiati (in questo caso, i medici).
Ma è come se l’ironia avesse preso il sopravvento sul furore, come se Nanni Moretti avesse deciso che sarà proprio una risata (quella di Michele bambino alla fine di Palombella rossa?) ad averla vinta su tutti questi obbrobri.

(Emanuela Martini, “Cineforum”, n. 329, 1993)




È lui la coscienza critica non solo di una generazione, ma anche del cinema italiano nel suo complesso. […] Un caso a sé, un isolato […]; con un suo fare sempre non casuale: prima i super8 selvaggi, poi uno stile personalissimo di comicità a denti stretti, poi l’evoluzione a cineasta ‘politico’, quello di Bianca, di La messa è finita; infine la produzione (con il lancio della Sacher), l’esercizio (con la festosa re-invenzione del nuovo Sacher a Roma), e infine la distribuzione, con l’idea della Tandem. […] Il suo Caro diario è un film che, come capita spesso davanti alle ‘cose’ di Nanni, mette con le spalle al muro, impedisce di avere alibi, fa pensare, con la sua struttura esile, con la sua dichiarazione d’intenti semplice ma efficace, alle modalità stesse del nostro cinema. […] Un film autobiografico e iper(realistico). […] Caro diario esce nel ’93, quando l’industria cinematografica italiana sembra sull’orlo del baratro, sospesa nel caos come il resto della nazione, in attesa del suo destino che sembrava segnato e irrimediabilmente buio.

(Vito Zagarrio, Cinema italiano anni novanta, Marsilio, 1998)




Caro diario
potrebbe essere intitolato Moretti 7½. Se non altro per il comune dato di partenza: un regista in cerca d’ispirazione. Ma, mentre Fellini in rinuncia a cercare l’ispirazione, per allestire il “più grande spettacolo del mondo” sulla mancanza d’ispirazione, Moretti finisce per realizzare alcuni sogni di Zavattini che non erano mai riusciti a superare la fase scritta: il “pollice verso la terza persona e ogni mediazione, inaugurando con le autobiografie una nuova globale responsabilità” (cfr. Cesare Zavattini: Straparole); il “diario dei pensieri di un uomo, così fatto che ogni fotogramma sarebbe un pensiero” (idem c.s.); il mai iniziato Italia mia (i cui principi ispiratori sono presenti nei due primi capitoli, In Vespa e Isole); il Diario 1940-1967, che Zavattini pubblicò, un diario tutto estroverso e per Informazione non presentea intimo, esattamente come i tre capitoli di Caro diario, dove Moretti riflette sul mondo e le cose che lo circondano; evitando di entrare nel proprio privato, anche quando affronta il tema della malattia; Caro diario appare dunque come una nuova tappa vincente nel cammino del cineasta italiano più rappresentativo dell’ultimo ventennio: l’unico che abbia saputo gestirsi in modo razionale, superando i confini senza uscire dal proprio seminato.

(Callisto Cosulich, “Caro diario” ovvero Moretti 7 e ½ “Paese Sera”, 13 novembre 1993)




Nel porre in primo piano il desiderio di essere del tutto sincero con il pubblico, come pure quello di fermare un particolare momento nei suoi film, Moretti ci ricorda Cesare Zavattini. Zavattini (che privilegiò anch’egli la forma del diario nelle sue produzioni letterarie) sosteneva che scrivere e girare in prima persona gli dava l’opportunità di essere diretto e sincero. Le sue parole: “Bisogna parlare non per conto di altri ma in nome di se stessi […]. Per questo io sostengo che occorre essere addirittura autobiografici, che è necessario usare la prima persona”, si adattano perfettamente alla posizione assunta da Moretti in Caro diario e in Aprile. Oltretutto, i film-diario di Moretti evocano alcune delle teorie più radicali di Zavattini; fra queste, il pedinamento di una persona per un giorno intero, durante il quale filmare tutto quanto le accade (Moretti reinterpreta gli episodi della propria vita invece di girarli mentre avvengono, ma i due atteggiamenti convivono negli scritti di Zavattini). Ancora, la profezia di un cinema realizzato in libertà e gestito da persone ‘normali’, con mezzi tecnici agili ed economici, in modo da comunicare i loro pensieri e da dare conto di piccoli e grandi eventi, è un’idea avanzata da Zavattini negli anni Sessanta con i suoi utopistici Cinegiornali liberi (occorre osservare che Caro diario in particolare, con la sua frammentazione e divisione in episodi eterogenei, potrebbe proprio essere visto come un personalissimo cinegiornale). Infine, negli anni Cinquanta Zavattini affermò che proprio il diario, inteso come “il tentativo di chiamare a giudicare se stesso e gli altri e tutto ciò che c’è di degno da raccontare”, è “l’espressione più completa e più autentica del cinema”.

(Ewa Mazierska, Laura Rascaroli, Il cinema di Nanni Moretti. Sogni & diari, Gremese, 2006)




Il percorso che porta Moretti da Io sono un autarchico (1976) a Palombella rossa (1989) è quello della costruzione di un’identità e della sua naturale messa in crisi. La figura di Michele Apicella, corroborata nella propria intransigenza morale dalla sfumatura di don Giulio, arriva, dopo aver consolidato una serie di manie, di modi di essere, a perdere il proprio baricentro, a dimenticare la propria consistenza. […] Se, dunque, la prima produzione è stata sotto il segno della contraffazione del sé fino ad arrivare alla deriva, alla perdita di compattezza di un’identità strutturata su una compagine di idiosincrasie molto forti, molto evidenti, Caro diario inaugura la fase della vittoria e al contempo della resa del sé in quanto tale, del mostrarsi splendido quarantenne per poi, in Aprile (1998), essere padre di famiglia. […]
Moretti con questo film sembra volersi fermare a riflettere sulla propria esperienza di regista, arrivando a proporne tre saggi: In Vespa sul senso della scrittura cinematografica, Isole sulle proprie ossessioni da mettere in scena, Medici sul mutuo scambio tra narratore/persona e personaggio/attore. Tre questioni fondamentali per il cinema di Moretti, tre questioni già presenti nei film precedenti ma che qui vengono affrontate con lucidità e determinazione proprio perché si avverte la necessità e l’urgenza di un cambiamento, di un mutamento di rotta. Dietro a quell’evidenza del Moretti non più Apicella e della divisione del corpo del film in capitoli, sta un momento di massima autocoscienza, di sospensione del fare in forma di pensiero, in sostanza, di rifondazione.

(Federica Villa, Un’autobiografia disattesa. Caro diario, in Nanni Moretti. Lo sguardo morale, a cura di Vito Zagarrio, Marsilio, 2012)




Moretti parla di sé e, poiché è un artista, parla del mondo. Tutto il resto non conta. Nei tre episodi di Caro diario Moretti mette in scena, nell’ordine: il rapporto con la propria città e con il proprio passato, il rapporto con il mondo dei mass media e delle cattive abitudini, il rapporto con la malattia vissuta sulla propria pelle. Ma il primo episodio è anche un rendiconto generazionale e una lettera d’amore a Roma, il secondo è una deliziosa variazione sul tema delle isole come luoghi fisici e psicologici, il terzo è la più agghiacciante parabola sulla malasanità che il cinema italiano potesse inventare (la stessa idea era venuta a Fellini dopo il primo ricovero, sarebbe stato affascinante fare il paragone).

(Alberto Crespi, Le isole di Nanni. Un viaggio istruttivo, “l’Unità”, 12 novembre 1993)




La prima volta che Moretti lascia i suoi alter ego Michele Apicella e don Giulio ed entra in gioco direttamente non la smette più di dirci che sono un’infinità le cose che gli piacciono più di tutte. Quando Nanni Moretti si mette in scena come Nanni Moretti (quanto questo Nanni Moretti cinematografico corrisponda al Nanni Moretti vero è questione indecidibile: sarà uguale e diverso), la prima cosa che ci dice di se stesso è che non c’è una sola cosa che gli piaccia più di tutte: ce ne sono tantissime. […] Forse allora è questa la cosa più bella di tutte, quella che comprende tutte le altre cose più belle di tutte: il mettersi sullo schermo, il raccontarsi in pubblico, lo scrivere un diario per voce, immagini e musiche che ti permette di raccontare pensieri e desideri e di vederteli rappresentati. Il bello di un diario al cinema è che i più bei piaceri privati, come l’andare in moto per la Garbatella o il girare un film di case, diventano cinema (che per un regista dev’essere il massimo dei piaceri). In un diario cinematografico, il piacere di mettersi in mostra coincide con l’altro di girare un film. […]
Caro diario
, con l’aggiunta della seconda, ancor più placata e aperta parte che è Aprile, è la storia di una auto-educazione. È un’autobiografia di formazione in progressiva formazione. […] Caro diario è una navigazione tra isole, è un pellegrinaggio di dottore in dottore, e finalmente un giro in Vespa dentro la realtà, tra le case di Roma (girare, girare: girare in Vespa, girare in aliscafo, girare di medico in medico, girare un film).

(Bruno Fornara, Caro diario. Tante cose mi piacciono più di tutte, in Nanni Moretti, “Garage”, Paravia, 1999)