La censura in Italia
Dai quotidiani si viene a sapere che il film di Truffaut è il primo a restare impigliato nelle reti della riformata legge sulla censura che, nelle intenzioni, avrebbe dovuto non ripetere più gli errori/orrori dei recenti trascorsi. Il Ministro del turismo e dello spettacolo, Alberto Folchi – co-autore con il senatore Mario Zotta, del nuovo disegno di legge sulla revisione dei film e dei lavori teatrali – approvando in primo grado, il veto al film posto dalla Commissione, scatena le proteste del mondo della cultura. Moravia mette a nudo il nodo della questione, mentre il critico e sceneggiatore Bonicelli racconta, in qualità di testimone diretto, l’incontro tra il regista Truffaut e la Commissione di censura, dopo l’avvenuto ricorso alla sentenza che negava il nulla osta al film. Alla fine della proiezione, ci furono “commosse strette di mano” che autorizzarono la distribuzione di Jules e Jim, vietandolo però ai minori di diciotto anni. Bonicelli conclude che “le buone cose, anche al cinematografo, si spiegano da sole”.
“La commissione di censura che ha bocciato Jules e Jim di François Truffaut ha dato prova di fedeltà ai principi dell’ipocrisia piccolo-borghese italiana secondo la quale le cose si fanno ma non si dicono. Che racconta infatti Jules e Jim? Nient’altro che una vicenda imperniata sul triangolo moglie, marito e amante che fu ed è tuttora uno degli argomenti preferiti del teatro e del cinema pochadistico. Ma attenti: le pochade parlano di triangolo in maniera astratta e meccanica. Ma nella realtà le convenzioni non esistono. Che vuol dire questo? Che la descrizione seria e commossa d’una simile situazione non poteva non spaventare i censori italiani in quanto non poteva non rivelare il carattere del tutto particolare e per questo estraneo alle convenzioni morali della situazione medesima”.
A. Moravia, L’adultera incostante della foresta nera, in “L’Espresso”, 24 giugno 1962
“Truffaut si mordicchiava le unghie e preparava mentalmente il discorsetto […], incerto se dichiarare di essere un buon cattolico, il che sarebbe stato difficile da dimostrare, o più genericamente un buon patriota. Poi pensò di dire che la sua vera vocazione era sempre stata quella di fare il censore e che soltanto per gli incidenti della vita aveva finito per fare il regista. […] Finì col dire che i suoi personaggi avevano cercato di darsi una nuova morale ed erano stati sconfitti. Cioè disse l’unica cosa che non doveva dire”.
V. Bonicelli, Avventura al ministero dello spettacolo, in “Le Ore”, 12 luglio 1962