Il secondo lungometraggio di Weir rappresenta un’autentica miniera di simboli e metafore, quasi tutte riferite all’antinomia fondamentale natura/civiltà, che in questo film celebra uno dei suoi maggiori trionfi. Naturalmente, all’origine c’è la bipartizione tra i due luoghi che si contendono il dominio del film (e delle anime dei personaggi): il collegio e la protuberanza rocciosa di Hanging Rock. Il primo è nato per allevare e addestrare giovani fanciulle in fiore ed è soprattutto un luogo di contenimento, e al suo interno (un interno labirintico) sono all’opera potenti forze di repressione sessuale; il secondo viene proposto come luogo in cui le tensioni (sessuali e no) possono essere liberate. Il primo è un luogo in cui prevale il gruppo; nel secondo può manifestarsi appieno la potenza del singolo individuo. Ricorrono, durante il film, molteplici simbologie che mettono in correlazione diretta natura e civiltà, suggerendo che la civiltà di cui si parla (fondamentalmente, la società vittoriana trasferita di peso dall’Inghilterra alla sua colonia australiana, insieme al suo bagaglio di tabù, divieti e repressioni).
Alberto Morsiani, Peter Weir, Il Castoro, Milano 2011
Picnic a Hanging Rock ha in comune con il film di Herzog [L’enigma di Kaspar Hauser ] la pregnanza degli elementi fisici che vengono filmati in dettaglio dalla mdp. La presenza incombente delle rocce, la loro materia minerale e tagliente, il contrasto delle loro forme e dimensioni (riprese spesso dal basso) con i corpi eterei e pallidi e i volti ‘preraffaeliti’ delle studentesse, origina un contrasto anche fisico, di notevole intensità, accentuato dalle allusioni alla sessualità e all’erotismo non soltanto nelle fenditure che si aprono nelle pareti rocciose ma anche dei dettagli della torta tagliata dal coltello, della banana mangiata dall’insegnante che scomparirà, o del rettile serpentiforme (uno scinco) che striscia fra le ragazze addormentate. Vi e poi il carattere allusivo della musica, il flauto di Pan suonato da Gheorghe Zamphir, dal carattere ipnotico e incantatorio che alimenta lo strano, inquietante languore che aleggia sul film dal momento in cui le ragazze e le insegnanti si trovano sotto ‘l’effetto’ magnetico delle rocce.
Roberto Chiesi, Alla prova dei fatti: Una storia reale, quindi sfuggente ed enigmatica. L’enigma di Kaspar Hauser di Werner Herzog e Picnic a Hanging Rock di Peter Weir, “Cineforum”, n. 587, agosto-settembre 2019
Sin dall’inizio, Picnic a Hanging Rock è un film sull’atto del guardare, e sullo sguardo stesso. Si apre con immagini delle studentesse che si guardano a vicenda, attraverso specchi, porte, e noi –attraverso l’intrusione voyeuristica della mdp nei loro bagni, nei loro mondi privati – le stiamo a nostra volta osservando. Nell’atmosfera repressiva di Appleyard, la carne femminile giovane deve essere nascosta, contenuta e celata. Solo a Hanging Rock, liberando una misteriosa energia eruttiva, i cappelli e i guanti vengono tolti, e anche le calze si srotolano. Irma, infatti, a un certo punto perde il corsetto; nell’ultima apparizione di Miss McCraw, l’unico indumento rimasto sono le mutande. È una sorta di striptease. Ma si percepisce, anche, dalle prime immagini del paesaggio, una sensazione più ampia di qualcun altro che osserva, lo stesso Hanging Rock sembra osservare. Uno sguardo divino, dall’alto. I personaggi lo guardano, ma anche noi sentiamo che esso guarda giù verso di loro, verso di noi.
Con la sua atmosfera da serra vittoriana e il suo feticismo (dai guanti e dalle calze ai fiori che le ragazze accarezzano, fino alla fissazione per i corsetti) e il suo focus sulla crescente curiosità sessuale delle ragazze (e delle donne), Picnic è deliziosamente maturo per un’interpretazione freudiana (e junghiana), e mentre il romanzo mantiene un tono più distaccato, interessato alle convenzioni sociali e al loro disfacimento, il film è tutto passione. Weir si concentra sul sensibile, sui piaceri e sui pericoli fatti carne, usando ripetutamente la sua mdp per tirare indietro ogni tenda, sollevare ogni sottogonna, srotolare ogni corsetto.
Megan Abbott, Picnic at Hanging Rock: What We See and What We Seem, Criterion.com, 20 giugno 2014
Ogni fase dell’ascensione ad Hanging Rock è connotata da precise simbologie, per lo più sessuali; è un dato di fatto che, in questo film, la liberazione individuale avviene soprattutto attraverso l’infrazione dei codici di repressione sessuale. I simboli sessuali sono ovunque. Delle guglie aguzze della roccia vengono a più riprese sottolineate dalla macchina da presa le caratteristiche falliche: verso di esse si dirige sovente, dal basso in alto, lo sguardo dei personaggi femminili del film. Le fessure nella roccia, a loro volta, contengono una precisa connotazione uterina, vaginale. D’altronde, la nascita stessa dello sperone roccioso era stato descritto, da Miss McCraw sul calesse in avvicinamento, con parole che esplicitamente fanno riferimento a un sottofondo sessuale: la “lava silicea eruttata allo stato viscoso dalle viscere della terra con estrema violenza” rimanda a una esplosione orgasmatica, a una eiaculazione di sperma maschile. Se la roccia possiede questa connotazione sessuale, così come i suoi labirintici anfratti, le sue guglie, le sue fessurazioni, l’ascesa a essa da parte dei vari personaggi diventa pari pari un’esperienza orgasmatica, con tanto di deliquii, perdite di coscienza, estasi, movimenti sonnambolici, abbandoni, svenimenti.
Alberto Morsiani, Peter Weir, Il Castoro, Milano 2011
Nel momento fatidico in cui, dopo uno strano sonno, decidono silenziosamente di riprendere a salire – sarà l’ultima immagine prima della loro scomparsa – un’idea molto interessante e stata quella di inquadrare soltanto le teste voltate delle tre ragazze, Miranda, Marion e Irma, che si avventurano nelle cavità rocciose senza rispondere al richiamo della loro amica Edith, spaventata dall’anomalia del loro comportamento. Non vediamo né durante né dopo le espressioni e gli sguardi delle tre ragazze quando, contravvenendo ad ogni logica e buon senso, decidono di continuare la salita, entrando nel ventre delle rocce. Così Weir viene a negare la possibilità per lo spettatore di ipotizzare quale potesse essere il loro stato d’animo in quel momento: inquadrate alle spalle, le tre ragazze diventano tre manichini anonimi e inquietanti che sembrano seguire soltanto pulsioni indecifrabili e sconosciute, senza uno scopo identificabile e comprensibile.
Nell’immagine negata di quei volti nascosti dietro l’immagine senza lineamenti delle teste, si condensa il mistero della loro scomparsa, tutto basato sulla sottrazione: non ci sono parole che suggeriscono possibili indizi […], non ci sono personaggi maschili che potrebbero essere coinvolti.
Roberto Chiesi, Alla prova dei fatti: Una storia reale, quindi sfuggente ed enigmatica. L’enigma di Kaspar Hauser di Werner Herzog e Picnic a Hanging Rock di Peter Weir, “Cineforum”, n. 587, agosto-settembre 2019
Non mi è mai interessato molto quell’aspetto del film. Non lo vedevo come parte del suo tema. Mi ricordo che quando andai a Londra per la promozione del film, quello era l’argomento che interessava di più i critici inglesi. I loro commenti variavano dalla discussione sulla sessualità repressa ad altri meno sottili, arrivando a parlare di saffismo e così via. Ma tutto ciò non mi interessava. Per me il grande tema era la Natura, e anche la sessualità delle ragazze faceva parte di essa non meno della lucertola che si arrampicava verso la cima della roccia. Erano tutte parti dello stesso insieme: parte di questioni più ampie. […] Nel film quello che mi interessava erano altre aree: suoni, odori, il modo in cui i capelli scendevano sulle spalle, immagini, solo immagini.
Peter Weir, Toward the Center, intervista di Tom Ryan and Brian McFarlane, “Cinema Papers”, n. 34, settembre-ottobre 1981