Una questione di stile: regia, luci, colori, musiche

Da un punto di vista stilistico, il lavoro di Weir è stato altrettanto originale e raffinato. Allo scopo di non farsi irrigidire dalle convenzioni del cinema in costume, il regista ha chiesto al direttore della fotografia Russell Boyd di accentuare gli effetti antinaturalistici e riprendere le immacolate collegiali con un occhio al modello pittorico preraffaellita. Attraverso movimenti di macchina attenti e complessi, Weir offre in questo modo la sensazione di essere a sua volta l’interessato indagatore di qualcosa cui non è possibile accedere. E Picnic a Hanging Rock diventa, con un’interpretazione forse cerebrale ma probabilmente non lontana dal vero, un piccolo manifesto estetico in favore di un cinema che suggerisce, scuote le certezze, lascia gli interrogativi aperti, fa parlare la natura e non pretende di educarla a essere fotogenica o tranquillizzante. Si tratta a ben vedere di un film che ha influenzato gran parte del cinema australiano successivo: proprio il lavoro intorno a una natura non addomesticata dall’intervento della civilizzazione è diventato il marchio di fabbrica di cineasti di vario rilievo quali George Miller, Rolf De Heer, Philip Noyce e altri ancora.
Roy Menarini, Enciclopedia del cinema, Dizionario critico dei film, Istituto della Enciclopedia Italiana Treccani, Roma 2005, a.v.

Picnic at Hanging Rock sarebbe stato scartato come una patata bollente se il pubblico avesse dovuto accontentarsi solo delle parole e della trama di Lindsay. Ma Weir e il suo team le mettono in scena in una processione di immagini magnifiche, che meritano di essere viste e assaporate nel loro splendore su pellicola 35mm su uno schermo cinematografico. Potremmo dire che il lavoro di Weir e Boyd qui (hanno poi collaborato a una serie di produzioni hollywoodiane, tra cui Master and Commander nel 2003, che valse a Boyd un Oscar) è doppiamente nostalgico: sia per il tempo e il luogo della storia, sia per il cinema espressivo dell’epoca del muto, che sapeva esprimersi fluentemente attraverso le sole immagini.
Quando intravediamo rapiti la snella ed eterea Miranda arrampicarsi come una Venere adolescente, siamo riportati all’epoca di Carl Dreyer, D.W. Griffith e F.W. Murnau, sebbene qui con brillanti cromie fluo ed effetti slow motion (entrambi enfatizzati dall’intensa luce australiana e dalle riprese in location, insostituibili). Sembra quasi che Weir canalizzi intuitivamente la leggendaria e laconica battuta di Norma Desmond in Viale del tramonto: “Non avevamo bisogno di dialoghi. Avevamo le facce!”.
Thom Delapa, “Cineaste”, vol. 49, n. 4, autunno 2024

Ho iniziato alcuni esperimenti tecnici (che ho continuato in L’ultima onda), per esempio con la velocità della cinepresa. Così, in una scena di dialogo, riprendevo il personaggio che parlava a 24 fotogrammi al secondo, mentre riprendevo il personaggio in ascolto a 48 o 32 fotogrammi. Chiedevo a quest’ultimo di non sbattere le palpebre e di non fare movimenti bruschi, in modo che il rallentamento non fosse percepibile. Poi montavo quelle reazioni, ottenendo una sorta di immobilità nel volto dell’ascoltatore. Questi dettagli non erano percepibili all’occhio, ma chi sedeva in sala aveva la sensazione di guardare qualcosa di molto diverso.
Per la colonna sonora ho utilizzato rumore bianco o suoni inaudibili all’orecchio umano, ma sempre presenti nella traccia audio. Ad esempio, ho usato spesso suoni di terremoti rallentati o mescolati con altri elementi. Alcuni spettatori di Picnic e L’ultima onda mi hanno detto di aver provato, in certi momenti del film, una strana sensazione di distacco dal tempo e dallo spazio. Questi trucchi tecnici hanno contribuito a creare quell’effetto.
Peter Weir, intervistato da Sue Mathews, 35mm Dreams: Conversations with Five Directors About the Australian Film Revival, Penguin Books 1984. Pubblicata in Peter Weir. Interviews, a cura di John C. Tibbetts, University Press of Mississippi, Jackson 2014

Sue Mathews: Quanto sono importanti per te i pittori e i dipinti nella concezione dell’aspetto visivo di un film?
Peter Weir: Prima di ogni film raccolgo un portfolio di stampe e fotografie, e le pareti si riempiono di queste immagini prima di iniziare le riprese. Possono esserci cose molto diverse tra loro. Ad esempio, tutto il deserto in Gli anni spezzati era rappresentato nel mio personale album da ritagli da Salvador Dalí – quei paesaggi desertici con gli enormi orologi che si sciolgono. […]
SM.: E per quanto riguarda i pittori australiani?
PW.: Non ricordo un’immagine di un dipinto australiano in particolare che abbia portato con me. Spesso si parla di un’influenza di Tom Roberts in Picnic, ma non ne ero consapevole. Penso che sia una questione di pura casualità; le fotografie, le cartoline e le pubblicità che raccolgo sono altrettanto numerose rispetto ai dipinti. Sono particolarmente utili per la scelta delle inquadrature e dell’illuminazione. A volte le colleziono senza sapere esattamente perché. Le porto con me e capita che le mostri al direttore della fotografia. Per Picnic ero molto interessato a un libro di fotografie di Lartigue, il fotografo francese, e ai suoi primi esperimenti con il colore. Che presentavano un aspetto desaturato. Abbiamo fatto alcuni test in quella direzione, poi ci siamo leggermente allontanati da quell’effetto. Penso che ogni volta che si esplora una tecnica, la si porti all’estremo e poi si tenti di attenuarla, fino a renderla quasi impercettibile.
SM.: Gran parte delle immagini Picnic hanno un aspetto tenue e sfumato.
PW.: Era quello che volevo. C’è qualcosa nei colori forti in un film in costume che può risultare disturbante. Credo sia dovuto all’abitudine a così tante fotografie in bianco e nero.
SM.: Molti hanno notato un aspetto preraffaellita in Picnic. Era qualcosa di cui eri consapevole nel modo in cui hai reso l’aspetto delle ragazze?
PW.: Assolutamente. Sapevo come dovevano apparire dalle fotografie e dai dipinti. La parte difficile è stata trovarle. Io e Pat Lovell abbiamo visto un paio di centinaia di ragazze in vari stati, ma abbiamo trovato proprio quel volto, quello preraffaellita, dall’aspetto ottocentesco, solo nell’Australia meridionale. È un tratto ancora visibile lì – forse ha a che fare con il loro stile di vita. Penso che tra le venti ragazze scelte, la grande maggioranza venisse da Adelaide. […] A Sydney e Melbourne dovevi cercare ragazze sempre più giovani per trovare qualcuno con l’aspetto giusto, ma questo comportava altri problemi. Potevi trovare una quattordicenne di Sydney che poteva quasi passare per una diciannovenne del XIX secolo, ma spesso sembravano comunque sbagliate. Era in parte una questione di età, ma soprattutto di una certa serenità o innocenza.
Peter Weir, intervistato da Sue Mathews, 35mm Dreams: Conversations with Five Directors About the Australian Film Revival, Penguin Books 1984. Pubblicata in
Peter Weir. Interviews, a cura di John C. Tibbetts, University Press of Mississippi, Jackson 2014

Io mi ritengo orgoglioso di affermare che la musica utilizzata nel film fu un mio contributo. Avevo sentito il flauto di Pan di George Zamphir circa sei mesi prima che avessimo bisogno della musica per il film. Il ricordo di quei suoni ossessionanti rimase con me. Al momento in cui avevamo finito di assemblare il film, il compositore che avevamo assunto, come a volte accade, non era riuscito a trovare un tema adatto per l’atmosfera del film. Poi io rammentai quel particolare brano di musica. Mi ricordo che corsi in città ad acquistare il disco e poi tornai a casa per chiamare Peter. Suonai quella musica per lui al telefono. Sapevamo di aver trovato qualcosa di prezioso.
Jim McElroy, A Rollercoaster Ride, in Massimo Benvegnù, Filmare l’anima. Il cinema di Peter Weir, Falsopiano, Alessandria 1997

Ci preme sottolineare gli aspetti fiabeschi del film, presenti sia a livello narrativo sia a livello letterale. Tutta la vicenda assomiglia a quella di una favola, con le belle fanciulle che si smarriscono nel bosco stregato e sono vittime di un incantesimo. Spesso, Miranda viene inquadrata mentre sta dormendo o si sta appena svegliando, come se fosse La Bella Addormentata nel Bosco. Il frequente utilizzo di riprese rallentate aggiunge all’azione una dimensione sognante o sognata. Quel sogno che viene evocato subito all’inizio del film da una voce femminile fuori campo (è la prima voce che udiamo, e rappresenta a suo modo una indicazione di lettura di ciò che succederà in seguito): “La vita è sogno, solo sogno. Il sogno di un sogno”. Come Biancaneve, Miranda si riflette in uno specchio ovale, e c’è anche la Regina Cattiva (Miss Appleyard, ovviamente, l’unica sempre vestita di nero). Anche il cerbiatto cui è paragonata Sara rimanda alla favola di Biancaneve, mentre la carrozza con i cavalli (e il ritorno entro un’ora prefissata) rammenta quella di Cenerentola di Perrault. Sara è il Brutto Anatroccolo di Andersen. Mike, da un certo punto in poi, si trasforma nel Principe Azzurro che in sella al suo destriero parte al salvataggio della bella principessa bionda in pericolo, seguito dallo scudiero recalcitrante (Albert). Come nella fiaba di Pollicino, Mike lascia dei biglietti disseminati lungo il percorso, ed è grazie a essi che Albert riesce a ritrovarlo. E poi le improvvise scomparse e riapparizioni, quasi magiche. E il bizzarro sogno del capanno che Albert racconta a Mike. Lo stesso paesaggio attorno ad Hanging Rock possiede una precisa qualità fiabesca, con quelle gigantesche felci e i suoi bizzarri animaletti che spuntano da ogni dove.
Alberto Morsiani, Peter Weir, Il Castoro, Milano 2011