Con Picnic a Hanging Rock mi trovavo chiaramente su un terreno pericoloso, dato il pregiudizio del pubblico nei confronti di un mistero senza soluzione. Dovevo creare un’atmosfera così potente da distogliere l’attenzione del pubblico dall’indagine di polizia, portandolo verso un altro tipo di film. La mia sola preoccupazione era come il pubblico avrebbe accettato un’idea così oltraggiosa. Personalmente trovo che sia l’aspetto più soddisfacente ed affascinante del film. Di solito considero i finali deludenti e del tutto innaturali. Si crea la vita sullo schermo, e la vita non ha finali. Ci si muove sempre verso qualche altra cosa e ci sono sempre degli elementi inspiegabili.
Quello che ho cercato di fare, circa verso la metà del film, è stato di sbarazzarmi dell’enfasi dell’elemento misterioso che avevo creato nella prima parte del film e sviluppare invece l’atmosfera oppressiva di qualcosa che non ha soluzione: uscire dalla tensione e dalla claustrofobia dei luoghi e dei rapporti umani. Abbiamo lavorato molto duramente per creare un ritmo allucinato e ipnotico, così da far perdere la consapevolezza degli eventi, ci si ferma per fare il punto e si piomba in quell’atmosfera così chiusa. Ho fatto tutto quello che era in mio potere per ipnotizzare lo spettatore e farlo restare lontano da qualsiasi possibilità di spiegazione… Ci sono, dopo tutto, delle cose al di fuori della portata della nostra intelligenza che sappiamo lontane molto meno delle sparizioni di Hanging Rock. Ed è con molti silenzi che racconto la mia versione della vicenda.
Peter Weir, intervista a cura di Jan Dawson, “Sight and Sound”, primavera 1976
Il romanzo di Joan Lindsay ricostruisce un caso misterioso della storia australiana di inizio Novecento: la scomparsa e il mancato ritrovamento di alcune collegiali su una montagna. Il mistero, intorno al quale nel corso degli anni sono nate interpretazioni discordanti e fantasiose, viene sviluppato da Weir con grande applicazione e suggestione. Dopo un lungo studio del libro e delle fonti documentarie, il regista ha proposto nella trasposizione cinematografica alcune strategie molto ben congegnate. Sicuro che offrire una soluzione al dilemma sarebbe stato di cattivo gusto e poco credibile, egli ha optato per un film d’autore dalle forti venature thriller, senza peraltro concedere una spiegazione degli avvenimenti.
Nella prima parte, infatti, la tensione si accumula lentamente, i dettagli inquietanti si fanno strada da una sequenza all’altra, l’impressione che qualcosa non vada per il verso giusto è palpabile ben prima che gli inspiegabili episodi si verifichino: il risultato che si vuole ottenere ‒ e si ottiene ‒ è quello di una pressione psicologica sempre più insistente e di una sensazione di mistero e insicurezza acuita più tardi dal procedere dei casi di sparizione.
Picnic a Hanging Rock
non sfocia mai nel genere fantastico o nell’orrorifico, dove peraltro alcuni critici hanno preteso di confinarlo, eppure utilizza alcune caratteristiche precipue del gotico e del romanticismo per sviluppare la dicotomia tra irrazionale e consueto. Da qui la sensazione che il territorio australiano funga da scenario perfetto per riflessioni sul rapporto tra natura e cultura e sulla presenza di una dimensione incontrollabile e a volte spaventosa della vita di tutti i giorni. Weir gioca quindi sapientemente sul racconto e sulla dilazione di un finale che, però, non giunge mai, almeno in termini tradizionali. Rimane, perciò, lo ‘scandalo di un gruppo di persone che sparisce dalla faccia della terra di fronte a una natura muta e certamente non rassicurante.
Roy Menarini, Enciclopedia del cinema, Dizionario critico dei film, Istituto della Enciclopedia Italiana Treccani, Roma 2005, a.v.
La prima cosa che ci viene in mente quando pensiamo a Picnic a Hanging Rock di Peter Weir è probabilmente la sua risoluzione, o meglio, la sua mancanza. Nella prima mezzora viene introdotto un mistero: tre studentesse e un’insegnante scompaiono durante un’escursione. Ci vengono forniti indizi, o almeno abbiamo l’impressione che lo siano, ma alla fine nessuno di essi porta da nessuna parte. Non scopriamo mai quale sia stato il loro destino.
Durante una proiezione del film destinata ai professionisti del settore, Weir ha ricordato in un’intervista che un distributore “alla fine del film lanciò la sua tazza di caffè contro lo schermo… perché aveva sprecato due ore della sua vita con un mistero senza soluzione!”. Molti spettatori e critici hanno condiviso questa frustrazione. La rivista “People” commentò sarcasticamente: “Weir, come weird (strano)”, definendo il film “insoddisfacente”.
Quasi quarant’anni dopo è ormai impossibile approcciarsi a Picnic a Hanging Rock senza essere già a conoscenza del suo presunto non-finale, il che, per molti, potrebbe eliminare la possibilità di frustrazione. Tuttavia, quella frustrazione – la sensazione inquietante e provocatoria di verità nascoste che ci vengono negate – è parte integrante del film stesso e una delle sue più grandi forze.
Megan Abbott, Picnic at Hanging Rock: What We See and What We Seem, “Criterion.com”, 20 giugno 2014