C’è gente che ancora guarda il film aspettandosi che accada qualcosa di terribile. Una persona che era in coda per assistere all’anteprima ha sentito una signora alle sue spalle dire: “Curioso che esistano due registi che si chiamano entrambi David Lynch”.
David Lynch
Nel maggio 1999 dal Festival cinematografico di Cannes giunse una notizia sconvolgente: il nuovo film di David Lynch non era inquietante, né offensivo, né indecifrabile. Spiccavano per assenza nani, uomini misteriosi, strambe capigliature, ciambelle, droghe e reginette del ballo defunte. Evidentemente, la capacità di Lynch di sorprendere critica e pubblico era immutata, ma questa volta a spiazzare entrambi erano l’estrema semplicità e, a tratti, la struggente umanità di Una storia vera.
Chris Rodley, in David Lynch, Io vedo me stesso, Il Saggiatore, Milano 2016
Per molti dei suoi ammiratori e per i media, Lynch continuava a essere associato a un universo di sessualità aberrante, di violenza urbana sfrenata, di linee narrative intrecciate e di umorismo assurdo: ora, non c’è niente di tutto ciò, se non un umorismo insolito, in Una storia vera, storia autentica e piena di buoni sentimenti. Eppure, sarebbe abbastanza facile dimostrare che l’autore di questo film è lo stesso che ha fatto Eraserhead, Elephant Man o Strade perdute. Il progetto di questo film gli viene dalla sua compagna e collaboratrice Mary Sweeney, che si era interessata alla storia di un pensionato di settantatré anni, non idoneo a guidare e privo di risorse finanziarie, Alvin Straight. Straight era partito nell’autunno del 1994 dalla cittadina di Laurens nello Iowa, sul suo tosaerba, a cinque miglia all’ora, trainando un povero rimorchio, per raggiungere Mount Zion nel Wisconsin, e ritrovare suo fratello maggiore Lyle. Un disaccordo separava Alvin e Lyle da dieci anni, e aveva impedito loro addirittura di telefonarsi. Il fratello più giovane, lui stesso mal ridotto, voleva riconciliarsi con il fratello maggiore prima di morire.
Michel Chion, David Lynch, Lindau, Torino 2000
Quando leggi una sceneggiatura o un libro, lo visualizzi e ne senti l’atmosfera e ne sei calamitato. Nella tua mente si formano delle immagini e sono quelle che devi ricordare e tradurre in cinema. Un attimo prima l’idea non esiste ancora, e un attimo dopo ti affiora alla coscienza ed esplode, e tutto ti è chiaro. Mary ha sentito parlare di questo viaggio nel 1994, quando se ne occupò la stampa. Milioni di persone lessero quella storia, ma lei ci si è proprio fissata. E me ne parlava di continuo, finché ho capito che voleva farne qualcosa, e mi sono detto, va bene. Quattro anni dopo, nel 1998, ha ottenuto i diritti, e io continuavo a pensare che andasse bene per Mary. Poi lei e John Roach si sono messi al lavoro sulla sceneggiatura. Hanno fatto il viaggio, incontrato la famiglia di Alvin e un sacco di gente. E appena hanno finito la sceneggiatura me l’hanno data. Sapevo che Mary voleva che la dirigessi io, ma non credevo proprio che avrei finito per accettare. Poi l’ho letta e mi sono convinto. Non è stata una cosa sola a farmi decidere, è stato l’insieme. Quando mi viene un’idea o leggo un libro o una sceneggiatura che mi conquistano, la cosa che faccio subito, automaticamente, è ‘sentire l’aria’. E in Una storia vera l’aria si sposava con la sceneggiatura e lì ho capito che avrei girato il film.
David Lynch in Michael Sragow, “Salon.com”, 28 ottobre 1999, trad. in David Lynch, Perdersi è meraviglioso, minimum fax, Roma 2012
La sceneggiatura di Sweeney e Roach, che conserva i nomi dei personaggi reali, vuole essere abbastanza vicina ai fatti, e drammatizza in modo discreto una storia senza peripezie, ricorrendo a due o tre semplici procedimenti: Alvin Straight deve ripartire per due volte, dal momento che il primo tosaerba esala ben presto l’ultimo respiro. Viene poi interrotto durante il cammino da un altro guasto, nient’altro. Su cosa riposa allora la costruzione narrativa minima? Soprattutto sulla progressiva rivelazione del passato e dei sentimenti di Alvin, man mano che procede il viaggio. Tutti i personaggi che incontra, o quasi, rappresentano un’occasione per immergersi nel passato del vecchio, per parlare della sua povera infanzia, della sua vita laboriosa, dei traumi lasciati dalla sua partecipazione come giovane recluta alla Seconda guerra mondiale in Francia (ha visto moltissimi morti, e ucciso per errore uno dei suoi compagni credendolo un tedesco), dell’alcolismo che ha seguito questi traumi, e infine dei sentimenti che gli ispira la propria vecchiaia. E, naturalmente, della disputa con un fratello maggiore a cui era stato per molto tempo assai vicino.
Michel Chion, David Lynch, Lindau, Torino 2000
Mi sono reso conto che una storia lineare si compone di un numero ridotto di elementi, e questo per me è stato un vero esperimento. Ogni film lo è, ma poiché in Una storia vera ci sono pochi accadimenti, quei pochi diventano FONDAMENTALI. E per questo vanno considerati con molta attenzione. Questa è una storia vera ed è anche molto tradizionale, ma sentivo che per trasmettere le emozioni giuste avrei dovuto lavorare sulle astrazioni. È questo che mi ha attratto della sceneggiatura: le sensazioni che suscitava e il modo in cui potevo tradurle in un film.
David Lynch, Io vedo me stesso, Il Saggiatore, Milano 2016
Ho rifatto il viaggio di Alvin Straight due volte. Prima per scegliere le location, poi per avere una visione più approfondita. La mia troupe lo ha fatto di nuovo una terza volta per organizzare vari dettagli. Il problema era che viaggiando in auto non ci si poteva fare veramente un’idea di come doveva essere stato per Alvin, neanche guidando piano. Un’auto non può andare a dieci chilometri all’ora a meno di non frenare in continuazione. Me ne sono reso conto quando ho iniziato a girare il film e mi sono ritrovato sulla corsia d’emergenza insieme a Richard [Farnsworth], dove ho visto i camion a diciotto ruote sorpassarci a tutta velocità. Alvin lo aveva fatto ogni giorno senza la scorta della polizia! Abbiamo seguito meticolosamente il suo itinerario. E abbiamo girato le riprese in ordine cronologico.
David Lynch, in Michael Henry, “Positif”, novembre 1999, trad. in David Lynch, Perdersi è meraviglioso, minimum fax, Roma 2012