Mio nonno portava stivali da cowboy, coltivava grano e per me era il più forte di tutti. Guidava sempre delle Buick. Andava pianissimo, cosa che mi piaceva da matti. Odio andare forte. Seduto accanto a mio nonno provavo molte emozioni che non saprei mai articolare. Ma i bambini piccoli sono capaci di provare tanto, e non dimenticano.
David Lynch

 

La mia idea è che Alvin avrebbe potuto viaggiare in modi molto più comodi, ma non avrebbe avuto lo stesso significato per suo fratello. Il valore di quel viaggio secondo me sta nel perdono e nella riparazione. Non è un film su un pilota di Formula Uno! Quando nella sceneggiatura hai un uomo di settantatré anni e nella realtà un attore che ne ha settantanove, la lentezza scaturisce dalla storia stessa. Alvin non guida una Corvette o una Dodge Charger, ma un tosaerba che può raggiungere una velocità massima di otto chilometri all’ora. E questo spalanca tutto un altro mondo.
David Lynch, Io vedo me stesso, Il Saggiatore, Milano 2016




Una storia vera
racconta decoro, dignità e onore in tutte le sue forme, attraverso un viaggio a tappe (più una falsa partenza) che si presenta comunque ‘straight’ come il protagonista, diretto e cocciuto. Le derive non inficiano il percorso – al contrario del suo opposto Cuore selvaggio – anzi lo rafforzano. Alvin, infatti, non solo ha scelto il viaggio, ma ha scelto di farlo lentamente. Rispettoso della propria età, il protagonista va a otto chilometri orari e si prende il tempo che gli è necessario per camminare attraverso la fetta di America che lo divide dal fratello malato. La strada diventa il luogo nel quale meritarsi il perdono. Inevitabilmente il film di Lynch diventa lento come il suo protagonista, anch’esso in un certo senso rispettoso della storia che ha deciso di raccontare. Come i movimenti di Alvin sono rallentati, così il film si mette al suo livello e non ha fretta: il lato contemplativo si sostituisce spesso a quello narrativo, intorbidendo in tal modo il recupero del western che molti critici hanno un po’ frettolosamente individuato nell’opera. Più ‘tibetano’ che vicino a John Ford – si ricordi che il metodo investigativo di Cooper in Twin Peaks si basa su un’attività onirica interpretata attraverso forme di conoscenza mistica tibetana, appunto -, il film esclude il mezzo automobilistico se non come ‘paesaggio’ continuo della highway statunitense.
Roy Menarini, Il cinema di David Lynch, Edizioni Falsopiano, Alessandria 2002




Una storia vera
[è] un bizzarro road movie che segna una nuova tappa nell’esplorazione lynchiana del paesaggio americano, in questa circostanza su un versante molto rurale, dal momento che l’azione si colloca approssimativamente tra l’Iowa e il Wisconsin. Ma quanto Cuore selvaggio era accelerato, convulso, ‘rock’n’roll’, tanto Una storia vera è volutamente lento, contemplativo, ‘country’. Questo per la semplice ragione che il ritmo del film si fonde con quello del suo personaggio, Alvin Straight (Richard Farnsworth), e del suo viaggio iniziatico al volante del suo piccolo trattore.
Thierry Jousse, David Lynch, Cahiers du Cinéma, Parigi 2010




Una storia vera
è la dilatazione del tempo e dello spazio nell’occhio meccanico della macchina da presa, dilatazione che dura lungo tutto lo spazio del film e che permette allo spettatore una nuova esperienza di visione. […] Ciò che veramente importa è la velocità del mezzo, è la velocità del corpo, entrambi caratterizzati dalla lentezza, dall’ottusa quanto determinata spinta ad andare avanti, ad attraversare lo spazio che li separa dalla meta. Contrariamente a quanto potrebbe sembrare a prima vista, la lentezza del mezzo di trasporto non permette alla macchina da presa (e ad Alvin) di “vedere di più”, di soffermarsi su ciò che sarebbe potuto rimanere invisibile intorno a loro. Il viaggio procede e lo spettatore è costretto a rimanere accanto al protagonista, a muoversi insieme a lui assaporando la sua lentezza. Lo sguardo della macchina da presa rifiuta di armonizzare il corpo di Alvin con la natura circostante; Alvin non lotta con lo spazio, ma con il tempo: con il tempo che gli resta da vivere, con il tempo lento della sua esistenza, con il tempo della memoria: in una delle scene più intense del film Alvin, costretto ad una sosta forzata per una riparazione, si ferma a bere una birra con un anziano del luogo. Seduti entrambi al bancone, i due rievocano i tempi della Seconda Guerra Mondiale, quando entrambi erano soldati. Due racconti drammatici, che segnano una vita […] Nonostante questo incontro, ognuno di loro sa che rimarrà solo con i propri ricordi, senza poter essere sollevato, consolato dalla loro atrocità. In crescendo, sentiamo i rumori di una battaglia, di esplosioni, di morte. Il suono rimane l’unica traccia sensibile del tempo.
Daniele Dottorini, David Lynch. Il cinema del sentire, Le Mani, Recco-Genova 2004




Il film è strutturato, parallelamente e in modo molto discreto, attraverso la progressione dell’autunno (l’azione si svolge dal settembre all’ottobre del 1994), e attraverso il cambiamento dei paesaggi attraversati: dalle pianure coltivate dello Iowa passiamo alle colline più boscose e accidentate, e da uno spazio aperto a uno spazio chiuso e ristretto, quello dalla povera casa di Lyle, nascosta nei boschi su un pendio, e che sembra essere il capolinea di una vita – con l’unica scappatoia visiva del cielo stellato al di sopra. […]
Contrariamente alla lunare Death Valley di Strade perdute, o alle terre quasi desertiche attraversate da Sailor e Lula in Cuore selvaggio, i paesaggi che incontriamo nel corso di questo viaggio sono tutti coltivati e umanizzati, e come pacificamente domati da enormi macchine mietitrici che lavorano sotto le luci calde e oblique dell’autunno.
Michel Chion, David Lynch, Lindau, Torino 2000




All’interno di quella grande congerie di codici stilistici che permettono di identificare senza il minimo dubbio il cinema di David Lynch, […] un elemento iconografico torna ripetutamente in modo discreto, a volte quasi impercettibilmente […]. Eppure la strada, molto placidamente, conferma di pellicola in pellicola la sua presenza, a volte presentandosi come puro raccordo narrativo, mera sequenza ponte tra due episodi determinanti (Velluto Blu, Fuoco cammina con me), altre distinguendosi come corredo simbolico della vicenda in atto (Strade perdute), altre ancora, infine, contribuendo a creare e sviluppare la struttura stessa della rappresentazione (Cuore selvaggio e Una storia vera). […]
Con Una storia vera, invece, Lynch spiazza tutti e muta radicalmente le sue modalità di rappresentazione della strada, facendo assurgere questa a tragitto da percorrere necessariamente per potersi riconnettere pacificamente non solo con il proprio passato, ma anche con se stessi […]. Il primo vero road movie di Lynch è un film particolare perché riesce a frantumare le convenzioni del genere operando una dilatazione estrema del livello temporale, ottenuta non attraverso la struttura stessa del film sulla strada, dove la consuetudine impone che la progressione cronologica venga rallentata tramite l’imprescindibile evenienza degli incontri, ma addirittura causata dal movimento stesso del protagonista lungo i cinquecento sette chilometri che separano Laurens, Iowa, da Mount Zion, Wisconsin. […] Nell’era della comunicazione istantanea, Alvin sceglie la strada più lunga perché è un uomo fuori dal tempo, quasi archetipico nella sua essenza di personaggio direttamente derivato dall’epopea western, alla quale lo Stetson, i jeans, gli stivali e la particolarità di abbattere il trattore rimasto in panne (come se fosse un cavallo ferito) direttamente rimandano. Il viaggio si carica così di una portata mitologica, inserita in un passato originario da recuperare nella sua duplicità di precedente storico di un’intera nazione e di rapporto familiare e personale da ricucire in prossimità della fine. […] Il viaggio si trasforma ancora una volta in allegoria, la strada usa la lentezza del tempo per meditare sulla vita umana e sulle sue implicazioni. Lynch abbandona il ritmo convulso che gli è solito per affidarsi all’elegia, in modo da aggiungere alla sua filmografia un tassello ulteriore che parte dalla connotazione stilistica e contenutistica della strada per giungere ad assumere il carattere della metafora universale.
Giampiero Frasca, On the road per meditare sulla vita umana, in David Lynch, “Garage”, n. 17, 2000




L’elemento particolare, straniante del film sta proprio nella non organicità del rapporto tra i corpi e lo spazio. Le frequenti inserzioni di immagini spaziali, le riprese dei campi, delle strade, dei boschi non hanno la funzione di inserire Alvin Straight all’interno dei paesaggi senza fine dell’Iowa o del Wisconsin, non armonizzano il suo corpo anziano e morente con i ritmi della natura. Anzi. La lentezza della macchina da presa, che sempre accompagna Alvin nel suo viaggio a bordo di un tosaerba alla ricerca del fratello malato, costringe lo sguardo a mantenersi all’interno dei tempi e della velocità di tale spostamento, senza anticipare o recedere dal compito etico di ‘accompagnare’ Alvin nel suo viaggio.
Daniele Dottorini, David Lynch. Il cinema del sentire, Le Mani, Recco-Genova 2004