In Velluto Blu e in Twin Peaks c’era un’iconografia molto coerente di una sorta di Americana nelle sequenze iniziali: le canzoni, i campi; ma improvvisamente, si scopriva che c’era qualcosa di inquietante e bizzarro dietro queste atmosfere deliziose. In Una storia vera, abbiamo a che fare con lo stesso tipo di iconografia, con la semplice differenza che non v’è Informazione non presentea dietro…
David Lynch
Il viaggio del vecchio Straight (mai nome fu più adatto) è proprio questo: un itinerario alla ricerca dell’America perduta, di quella che non si vede al cinema, un percorso picaresco che ci parla un po’ alla maniera di Mark Twain, sorridendo, sì, ma con il beneficio di tanta verità imparata (e insegnata) lungo il cammino, lo spaccato di un mondo che è il vero cuore del paese molto più di Brooklyn o di Anaheim. I suoi sono i valori che contano, quelli veri, molto più di qualsiasi pelosa e quasi sempre sospetta political correctness. Forse non sono sempre i migliori possibili, forse non sono ogni volta praticati nel modo giusto, ma sono comunque ciò che ancora pervade l’anima di quella nazione.
Il rapporto di questa pellicola con la grande tradizione letteraria americana si respira in ogni suo angolo: i pochi minuti della sequenza col cervo valgono la memorabile pagina dei cavalli pezzati faulkneriani, un esercizio di umorismo squisitamente americano perché connesso a una dimensione diversa (americana, appunto) dello spazio e alla leggera componente di assurdità che aleggia su un episodio in se stesso del tutto verosimile. Una breve pagina magistrale che da sola giustificherebbe la visione del film. Ma si pensi anche all’incontro con la famiglia che vive nei pressi del fiume Mississippi, si pensi alla serenità che emana da quello scambio di informazioni fra estranei, alle gentilezze offerte, a quelle accettate e non accettate. C’è più America in quei tre dollari che Straight lascia davanti alla porta dell’ospite e che questi raccoglie senza alcuna protesta che non in tutto il cinema targato Hollywood dell’ultimo anno.
Franco La Polla, Niente staccionate in Paradiso, “Cineforum”, n. 393, aprile 2000
Di tutti i film di Lynch, Una storia vera è il più sereno, ma probabilmente anche il più americano e il più pittorico. Americano perché Una storia vera è senza alcun dubbio una sorta di western senza scontri e senza colpi d’arma da fuoco e il cui obiettivo principale è probabilmente quello di filmare da tutti i punti di vista possibili e in tutte le sfaccettature il paesaggio americano in quello che c’è di più maestoso e di più profondo. Non manca Informazione non presentea: l’orizzonte a perdita d’occhio (come testimonia già la prima inquadratura del film, che sembra esplorare i campi), la linea diritta eretta a punto di fuga verso l’infinito, i campi di granturco, i daini, la pioggia, la tempesta, il vento, il sole, i cieli, le stelle, ma anche i camion, le biciclette, le macchine agricole… Questa onnipresenza elegiaca del paesaggio americano – talvolta spinta al limite dell’oleografia – va nella direzione della pittura non meno che in quella del cinema, e ci ricorda che i riferimenti pittorici sono tutt’altro che infrequenti nel cinema di Lynch, dall’Espressionismo a Edward Hopper, o in questa circostanza più nella direzione dei grandi paesaggisti americani: benché il regista ponga sempre la massima cura nel differenziare la sua attività di cineasta da quella di pittore, non possiamo certo esserne sorpresi.
Thierry Jousse, David Lynch, Cahiers du Cinéma, Parigi 2010
Era la fine dell’estate, per cui man mano che procedevamo le foglie cambiavano colore. Era un momento molto favorevole per trovarsi lì. L’estate stava lasciando il posto all’autunno, la stagione del raccolto. Siamo partiti con il caldo e con un paesaggio completamente piatto intorno a noi e poi, durante il viaggio, è cominciato il raccolto ed è arrivato l’autunno, proprio mentre avvistavamo le prime colline.
David Lynch, Io vedo me stesso, Il Saggiatore, Milano 2016
[David Lynch] si è subito rivolto al celebre direttore della fotografia Freddie Francis per girare un road movie unico nel suo genere […]. Francis aveva collaborato per la prima volta con Lynch in The Elephant Man e successivamente aveva girato la sua ambiziosa epopea fantascientifica, Dune […]. Francis ha cercato di cogliere l’aria autentica del Midwest. “Ci siamo immersi nell’atmosfera dell’Iowa e abbiamo cercato di trasferirla sullo schermo per sottolineare le difficoltà del vecchio e di sua figlia, per trasmettere la loro situazione di povertà”, osserva. “Il film si apre una volta che il personaggio si è messo in viaggio. Se siete mai stati in Iowa e avete visto i campi di grano, sono più o meno tutti uguali. I luoghi hanno una loro bellezza, ma sono molto piatti, con strade dritte che non finiscono mai”. Questa sensazione è ben rappresentata nel film dalle ampie riprese aeree […] che conferiscono la dimensione maestosa e i colori autunnali al paesaggio.
Francis ha utilizzato un un’illuminazione naturale. […] Gli interni dei bar poco illuminati che ricordano i quadri di Hopper, così come i contrasti drammatici del clima e del paesaggio, sono introdotti solo in momenti essenziali della storia. L’accuratezza delle location è di grande importanza per Francis.
John Gainsborough, Straight Shooting on The Straight Story, “American Cinematographer”, novembre 1999
Non abbiamo dipinto niente! Alcune cose le devi saper scegliere, ma tante semplicemente te le ritrovi. Sono lì. Non è un documentario, eppure l’unica luce è quella del sole e il paesaggio è proprio quello. Non c’è molto su cui giocare, ma puoi lavorare con quello che hai. Quando si fa un film come questo l’intervento dello scenografo non si deve notare. Jack Fisk è intervenuto spesso, ma è giusto che non si veda. Il film si poteva girare in cento modi diversi; quello realistico è perfetto. A me piace quando l’uomo e la natura collaborano.
David Lynch, Io vedo me stesso, Il Saggiatore, Milano 2016
Fin dalle prime inquadrature di Una storia vera, ci si accorge di essere immersi in una versione rurale del mondo lynchiano. L’attenzione pittorica agli aspetti materici, al colore e alla composizione è inconfondibile. Seguendo il percorso del tosaerba di Alvin, Lynch ha modo di osservare il paesaggio americano più di quanto non avesse mai fatto prima. Nemmeno un regista europeo, per quanto infatuato di questo paese mitico, sarebbe in grado di eguagliare il suo palpabile senso di ammirazione. Il volto di Richard Farnsworth, nel ruolo di Alvin Straight, diventa un tratto geologico di quel paesaggio scabro, consumato dagli elementi e dotato di un fascino inesauribile. Per quanto a Lynch non interessi il cinema di genere, questo è il materiale del western classico: una versione di fine millennio della testa scavata, totemica di John Wayne, come se fosse un’altra delle sculture di pietra bruciate dal sole della Monument Valley.
Chris Rodley, in David Lynch, Io vedo me stesso, Il Saggiatore, Milano 2016
Le riprese aeree attraversano i campi coltivati e quelle in soggettiva riproducono l’avanzamento di Straight attraverso il paese. “La cosa importante per me”, ha dichiarato Lynch, “è la vastità del paesaggio, l’impressione di fluttuare nella natura”. […] La fisionomia del paesaggio di Alvin è tipicamente americana. Il paesaggio monotono del Midwest infonde nel film un senso mitico di quotidianità, a tratti associato allo spirito benevolo della comunità, all’attraversamento del fiume Mississippi e soprattutto, forse, alla figura del cowboy. Se Alvin preconizza un ritorno della linearità nel cinema americano moderno, è in parte perché il suo volto rimanda a una fattezza naturale universale, che promette un’armonia limpida tra l’individuo e il mondo. The Straight Story riporta in vita strutture profonde e armoniose di saggezza e umanità.
Joe Kember, David Lynch and the Mug Shot, in The Cinema of David Lynch, a cura di Erica Sheen e Annette Davison, Wallflower Press, London-New York 2004
Quando è saltato fuori il nome di Richard Farnsworth ho sentito le campane che suonavano a festa! Si dice spesso di alcuni attori che sembrano nati per un ruolo specifico. Se mai è stato vero, questo è il caso. Il film deve tutto alla sua interpretazione. Nessun altro sarebbe riuscito a fare quello che ha fatto lui. Ha una dote particolare che si ritrova in tutti i suoi film e che te lo fa amare all’istante. E assomiglia tantissimo ad Alvin. Porta sempre il cappello, come Alvin, e come lui proviene dal mondo dei rodei.
Richard era uno stuntman prima di cominciare a recitare, e non si è mai considerato un attore, il che secondo me è assurdo perché sa davvero dare vita ai personaggi. Risponde perfettamente alla definizione di attore: una persona che trasforma una storia in realtà. Quando gli fai un primo piano, la mente si focalizza su di lui, l’immaginazione prende il volo e così anche il cuore; si crea un’interazione tra queste tre forze. Ogni parola e ogni suo sguardo comunicano tanto. Era aperto a tutto, come un bambino. Quello che fa è meraviglioso.
David Lynch, Io vedo me stesso, Il Saggiatore, Milano 2016